Questa è una storia vera e – vi avviso – parla un po’ di me.
Non aderisco mai alle catene social tipo “se lo pensi anche tu, condividi”, perché so benissimo che si tratta di trappoloni o di inutili perdite di tempo, però l’invito che in questi giorni una amica mi ha rivolto via facebook perché segnalassi i dischi che mi hanno accompagnato negli anni (e ancora lo fanno accarezzando i miei gusti musicali e i miei ricordi ) mi ha divertito e ho deciso di fare uno strappo alla regola (… a modo mio, naturalmente).
Così, dopo avere citato un album di De André (disco “del cuore” per molte ragioni), mi sono ricordata di un Lp che, ragazzina, avevo comprato d’impulso, senza nulla sapere del suo contenuto musicale e dei suoi esecutori: banalmente, ero stata attratta dalla copertina e dal prezzo.
Dovete sapere che il primo ipermercato aperto in quegli anni vicino casa mia aveva un ricchissimo reparto di strumenti musicali e dischi: io lo frequentavo sognando di comprare tutto, chitarre, maracas e spartiti compresi, oltre ai dischi dei miei beniamini, naturalmente, e, altrettanto naturalmente, ogni volta me ne tornavo a casa con le pive nel sacco, solo in parte consolata dall’aver almeno potuto ascoltare in cuffia qualche novità musicale. Ma il grande magazzino aveva un’altra, importante caratteristica: i prezzi interessanti. Quel giorno, fra gli altri dischi in super offerta, ce ne era uno messo a meno della metà del costo originale: fatti due conti con le monetine che mi ritrovavo in tasca (sperdute e quasi incredule della loro solitudine) e spinta dalla mia solita curiosità di conoscere, di sapere di più, di imparare nuove cose, decisi che lo avrei comprato (ricordiamoci che allora non esisteva internet e accedere a informazioni di vario tipo era spesso una missione impossibile).
Se è vero che un libro non si dovrebbe giudicare dalla copertina, per un disco, specie se un 33 giri, la copertina era invece fondamentale: così, visto che mi incuriosiva, mi lasciai guidare unicamente dalla curiosità, appunto. Quella che stavo osservando era infatti una copertina strana assai, che prometteva musica certamente lontanissima da quella (italiana e comunque rassicurante) che ascoltavo abitualmente: vi campeggiavano quattro tizi bruttarelli, capelloni e un po’inquietanti, uno persino a petto nudo e tuttavia con un incongruente caschetto perfettamente fonato; i quattro mi guardavano mettendo in primo piano le mani (tre destre, più una sinistra: uno di loro era mancino, evidentemente) che riportavano su ciascun dito una lettera, fino a formare il nome del gruppo. Mai sentiti, per quanto mi riguardava, e quindi, specie al quel prezzo, imperdibili: era l’unico, quel 33 giri, e lo acquistati gongolando, come farebbe un collezionista quando al mercatino delle pulci si imbatte in una trouvaille.
Arrivata a casa, scemata la furia compulsiva dell’acquisto, mi misi ad osservarlo, indugiando ancora: non mi decidevo a togliere il disco dal suo cellophane. Stavo ragionando.
Se fossi una di quelle persone che comprano qualcosa e poi, pentite, la riportano al negozio, forse lo avrei restituito: non ero poi così sicura di avere speso nel modo migliore i miei miserrimi risparmi, anche perché, mi dicevo, se il negozio aveva ribassato il prezzo del disco di oltre il 60% forse si trattava di una ciofeca… Ma non sono quel genere di persona: non lo sono oggi, figurarsi da ragazzina…
“E va bene, oramai è fatta: apriamolo e sentiamo un po’ che c’è”.
Quando compravo un disco adoravo il rumore dello spacchettamento, che mi scatenava le farfalle nello stomaco e la deliziosa sensazione di avere fra le mani qualcosa di prezioso e tutto mio: l’impulso sarebbe stato quello di scartare il disco velocemente, ma il mio rispetto per quell’oggetto era tale che, fino a che resisteva, conservavo anche la sua copertura di cellophane, limitandomi a tagliarla in corrispondenza della apertura della copertina vera.
Estrassi il disco con cautela e lo poggiai sul piatto del giradischi; con un gesto che solo pochi anni dopo sarebbe diventato abituale, lo pulii con la spazzolina di velluto blu e, con estrema delicatezza, poggiai la puntina sul vinile, lato 1.
La musica partì e la mia stanza venne inondata (anzi, assalita) da una schitarrata rock, decisamente rock, anzi: molto, molto, moltissimo rock! Con un balzo mi avvicinai al giradischi per abbassare il volume: i miei, di là, mi avrebbero rimproverato sicuramente per quella musicaccia, per giunta spinta a volume massimo. Troppo tardi: la porta della mia camera si aprì e lo sguardo che mi venne rivolto fu inequivocabile.
E’ bene ricordare anche che a quel tempo le cuffie, che oggi risolvono così tanti problemi di convivenza familiare e condominiale, erano roba da specialisti e nelle case “normali” non ne esistevano: non mi rimase altro che aspettare di trovarmi in casa da sola per scoprire che diavolo avessi mai comprato (e il diavolo c’entrava di sicuro, visti i ceffi dei musicisti sulla copertina e il baccano che scatenavano).
Quando finalmente potei ascoltare il disco, rimasi di stucco: e chi l’avrebbe mai detto che mi sarebbe piaciuta quella roba lì? Perché il disco mi piaceva, eccome!, e quando, dopo la schitarrata di cui sopra, arrivò la voce del cantante, feci un salto sulla poltrona. Non avevo mai sentito nulla del genere, la musica era di una potenza potentissima, energetica ed energizzante, strana ma affascinante: e sì che stavo da sempre attaccatissima alla radio, divoravo generi musicali diversi fra di loro, non avevo preconcetti e credevo oramai di avere ascoltato indenne un po’ di tutto (persino qualcosina di dodecafonico!)… Oddio, qualcosa continuava a lasciarmi perplessa, per esempio l’inglese che usavano: non ne sapevo molto, ma mi sembrava che anche lì ci fossero cose un po’… borderline.
Ovviamente non tutti i brani mi piacevano allo stesso modo, però ce n’erano due che proprio non riuscivo ad ascoltare stando ferma: anni dopo avrei imparato che il primo era un capolavoro scritto e cantato da una straordinaria artista morta troppo giovane; anche in questa versione, “Move over” di Janis Joplin mi stordiva con la sua forza. L’altro mio preferito del disco mi faceva lo stesso effetto tarantolante che “Jump around” fa a Robin Williams nella famosa scena dell’aspirapolvere di “Mr Doubtfire”: per me era impossibile ascoltarlo senza ballare, saltando sul letto e dimenandomi come una ossessa, con il volume del giradischi più alto che mi concedevano i pazientissimi vicini di casa. Per questo mettevo il disco solo quando i miei non c’erano, ovviamente.
Vi è mai capitato di incontrare, a distanza di anni e anni, il vostro grande amore dell’adolescenza e, malgrado ne vediate chiaramente le rughe, le imperfezioni, i chili di troppo, la stempiatura, riprovare un piccolo tuffo al cuore e infinita tenerezza? A me è successo rigirando fra le mani quel vecchio vinile.
Il gruppo (lo avete già visto dall’immagine) è quello degli “Slade”, geniali grezzoni glam rock degli anni’70; l’Lp è “Slayed?” e la canzone tarantolante è “Mama Weer All Crazee Now”, successivamente rifatta da molti artisti.
L’ho riascoltata e, come ai vecchi tempi, l’ho ballata come una ossessa: … quando mi sono ritrovata sola in casa, ovviamente…