“Pranzi di famiglia”, Neri Pozza Editore
2019
pagg 480
€ 18,00
Si intitola “Pranzi di famiglia” (Neri Pozza Editore) il nuovo, avvolgente romanzo di Romana Petri.
Siamo a Lisbona. La famiglia Dos Santos, immancabilmente, nei giorni di festa si riunisce per il tradizionale pranzo “di famiglia”. Ma quella dei Dos Santos è una famiglia sgranata, involuta su se stessa, sulle proprie paure, sulla propria rabbia verso la vita e verso il mondo, sui rancori reciproci fortissimi e taciuti: é, per di più, una famiglia senza ricordi, senza cioè nemmeno più la traccia delle sue radici, necessarie non solo per riconoscersi, ma anche per amarsi. A volere questi pranzi di famiglia è il padre, Tiago, che pure ne ha causato il disfacimento abbandonando molti anni prima la moglie Maria, combattiva e luminescente madre dei suoi tre figli, per unirsi alla subdola Marta, ombrosa e invidiosa manipolatrice. I figli, oramai trentenni, non provano neppure ad opporsi a questo rito oramai solo formale, svuotata com’è la loro famiglia, specie dopo la recente morte di Maria, da ogni affetto vero: nemmeno si baciano, quando si incontrano, limitandosi a mimare un gesto che, come il pranzo, è solo una formalità. La primogenita Rita, sottoposta sin dalla nascita a dolorosi interventi chirurgici per correggere la deformità congenita, sembra accusare della sua sofferenza i familiari, esplodendo in improvvisi e furibondi scatti di ira, imponendo i suoi capricci, lamentandosi di tutto e tutti: del padre, che da vero parvenu si preoccupa solo di esibire il potere raggiunto come uomo di governo e i privilegi che da questa carica gli derivano; di Vasco, il fratello di poco più giovane, svagato, svanito, apatico, titolare di una galleria d’arte nella quale sembra essere il primo a non credere. Soprattutto, Rita sembra detestare la sorella Joana, gemella di Tiago, cui la sorte ha riservato tutta la bellezza che a lei è stata negata; del resto, l’avversione di Rita è totalmente ricambiata da Joana, cresciuta con la convinzione errata che tutta l’attenzione, tutte le forze e -soprattutto- tutto l’amore della madre fossero unicamente destinate alla deforme sorella. Vasco, nel mezzo, sembra essere – suo malgrado – un riferimento per gli altri.
E’ davvero così? Risolveranno i fratelli le loro tensioni? Ritroveranno, grazie all’impegno di Vasco, il ricordo della loro infanzia? Lenirà il ritrovato passato le paure di ciascuno per il futuro? Torneranno ad amarsi, come si fa in una vera famiglia?
Inatteso deus ex machina, piomba improvvisamente nella vita di Vasco e dei suoi familiari, accompagnata dal cane Barabba, l’ineffabile Luciana Albertini, una italiana che ora, nella sua seconda vita, è una pittrice per lo meno singolare: con il suo arrivo per qualcuno nulla sarà più come prima. Forse.
In “Pranzi di famiglia”, con la sua scrittura fine e lucida, Romana Petri ci riconduce nella famiglia Dos Santos all’indomani della morte di Maria do Ceu, straordinaria protagonista, una decina di anni fa, di “Ovunque io sia”, prima parte della saga, costruendo un romanzo filosofico in cui anche la Lusitania è, con i suoi abitanti, la sua cucina, le sue luci e le ombre, una protagonista dolce-amara e fondamentale.
Menzione d’onore per lo struggente zio, lo schizofrenico Humberto: un personaggio perfetto, la voce della coscienza sopita dei “sani” e della più poetica incoscienza dei “matti”, magistralmente raccontato dall’Autrice. Quanto l’ho amato…!
Il finale è “aperto”, perché dei Dos Santos Romana Petri, forse, ha ancora molto da raccontare: non vediamo l’ora di scoprire se e che cosa.
Ecco l’intervista a Romana Petri, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
Canzone consigliata: “Faluas do Tejo”, Madredeus
Giancarla: I tuoi libri, Romana, mi inchiodano alla lettura: questo, per esempio, che diventava via via sempre più solare, pur partendo da una iniziale situazione di sofferenza, di lutto addirittura. La domanda che sto per farti non è originale, lo so bene, ma al tempo stesso è ineludibile: perché hai sentito, dopo tanti anni, il bisogno di tornare a tuffarti in quella famiglia, in quella situazione, in quella Lusitania?
Romana Petri: Perché ci sono libri che non finiscono: sono loro che decidono e non sei mai tu, sono i personaggi di quei romanzi che, magari mentre stai facendo una passeggiata, o la spesa, senti che ti chiamano, e allora ti cominciano a venire in mente delle frasi; è come se loro parlassero dicendoti “Continua: la nostra storia non è finita”. Può succedere anche dopo tanto tempo, come con questo libro, che ho scritto dopo tanti anni dal precedente (“Ovunque io sia”, n.d.r.); invece, la terza parte (perché ci sarà una terza parte), …beh, quella l’ho già finita! I personaggi “premono”, fanno proprio pressione. Il Rinascimento, l’Umanesimo hanno parlato del genio, come se tutto il processo creativo fosse consapevole: secondo me, invece, è una grazia di Dio; c’è qualcosa che ti piomba addosso dal dio della scrittura, ecco! Io, che sono più politeista che monoteista, penso che ci sia un dio della scrittura che, ogni tanto, mi piomba addosso, mi si mette a cavalcioni sulle spalle e decide che io devo scrivere… e infatti, io scrivo!
G.: Trovo che questo sia un romanzo “filosofico”: sei d’accordo?
R.P.: E’ totalmente filosofico, perché la filosofia fa parte della mia cultura, così come il mito greco. Credo poi che la filosofia sia una scienza che accompagna anche chi di filosofia non ne mastica molto perché, in ogni caso, tutti dobbiamo trovare una soluzione per il vivere: la filosofia vorrebbe fare appunto questo. …Poi è molto difficile che il filosofo viva esattamente così come propone la sua filosofia: ci sono riusciti in pochi, ma sicuramente Spinoza, Montaigne, Epicuro; altri filosofi che abbiano vissuto in stretta connessione con le loro parole me ne vengono in mente di meno, perché se, per esempio, penso a Rousseau, che scriveva trattati sull’educazione e poi metteva i suoi figli in orfanotrofio… Sono una donna di poche sfumature nei miei giudizi: se venissi a scoprire che Johan Sebastian Bach – che ascolto tutti i giorni – era un pedofilo, non lo ascolterei più; se a commettere un abuso è Berlusconi o il più grande intellettuale al mondo per me l’abuso è abuso e basta. Non posso giustificare qualcuno solo perché è un grande intellettuale: in questo senso ho poche sfumature. Per me, il Bene e il Male ci sono.
G.: I protagonisti sono tre fratelli (Rita, Joana e Vasco), che più diversi fra di loro non si potrebbe ma che, al tempo stesso, sono una famiglia, per quanto imperfetta, che sta cercando di ritrovare le sue radici: ne hanno bisogno per costruire il loro futuro?
R.P.: Senza passato non si può vivere con intensità il presente, né fare un minimo progetto per il futuro. I tre fratelli si ritrovano, a trent’anni, a non ricordare la loro infanzia, cioè quel momento del passato che ci forma completamente: è indispensabile fare questo viaggio all’indietro non solo per cercare di avere una vita futura, un progetto lavorativo, o amoroso, o familiare, ma anche per arrivare ad un ricongiungimento con se stessi. Non deve esistere questo nodo che chiude l’inizio con la fine, cioè la morte; deve comunque esistere un filo rosso che tiene unita la vita di un essere umano. “Tornare indietro” è indispensabile, anche quando è doloroso: l’amaro calice va bevuto.
G.: … Per crescere, certamente: infatti una dei tre, Joana, litiga costantemente col suo doloroso passato. Mi è sembrato che tu sia stata un po’ severa con lei: in fin dei conti, è una ragazza che, anche se certamente sbagliando, ha recepito una mancanza di affetto e di attenzione da parte della madre. …Come si guarisce da questi dolori?
R.P.: Crescendo, tagliando un po’ di cordoni. Se si hanno sei, dieci, dodici anni questo dolore è ancora plausibile, ma essere ancora così arrabbiati a trent’anni perché la propria madre doveva curare la sorella deforme è una non crescita: è per questo che ci vuole il ritorno indietro, il capire, il perdonare. I genitori non sono eroi: anzi, lo sono, ma per loro è anche indispensabile fare degli errori. Non è possibile che un genitore non sbagli: un genitore che ha una figlia come Rita è obbligato a sbagliare con gli altri figli. Siamo umani, non abbiamo la forza di un dinosauro per metterci tutto sulle spalle, quindi sono severa con lei soprattutto rispetto al fatto che sia ancora così profondamente risentita. Vasco è meno risentito: il risentimento è un sentimento distruttivo.
G.: All’inizio del romanzo mi sembrava che Vasco fosse cupo: un giovane che fa quello che gli piace ma senza crederci sino in fondo, fino a quando ha una “illuminazione”. Filosoficamente parlando, Vasco è l’essere umano che si evolve.
R.P.: Sì, si evolve, ma con molta lentezza, è un uomo indolente e per tutto il romanzo è una persona molto irrisolta: deve fare ancora molta strada, però è sicuramente il più desideroso di vivere in modo migliore, anche se, secondo me, chi alla fine vive meglio di tutti è Rita, che ha subìto una grandissima sofferenza fisica. Sembra una banalità dire che ci si sente depressi, che si fa fatica a vivere, mentre negli ospedali ci sono tanti malati terminali che soffrono in maniera brutale: invece ogni tanto ci si dovrebbero fare anche questi discorsi basici. Rita, che ha vissuto nel corpo tutto il male del mondo, non vuole più sentirsi così tanto ferita nell’animo, e allora “si risolve”, riuscendo ad essere meno furibonda di come era.
G.: Nel libro, effettivamente, si tratta anche del problema della gestione della rabbia: nel caso di Joana la rabbia è ostativa, in Rita, invece, diventa un propellente.
R.P.: Nel caso di Rita la rabbia è fisiologica, non poteva non esserci: quando nasci deforme, penso sia piuttosto naturale chiedersi “Perché io?”. Questo è il problema: tutti coloro che soffrono si fanno questa domanda, ma quando si giunge alla risposta – e cioè che questo “perché” è scritto su di un grande quaderno universale dove accadono cose meravigliose e cose orrende – si giunge anche alla conclusione che il mondo è diviso fra il Bene e il Male. Io non posso pensare che centinaia di persone siano morte durante uno tsunami perché tutte quante dovevano pagare un qualcosa di brutto che avevano commesso, è ridicolo: invece credo che il Mondo sia equamente distinto fra il Bene e il Male, e che queste due potenze si combattano sempre furiosamente: a volte vince una, a volte l’altra.
G.: E poi c’è Humberto…
R.P.: …Che è veramente pazzo. E’ il fratello schizofrenico del padre dei ragazzi ed essendo pazzo è meraviglioso, perché non è minimamente contaminato dalla corruzione del mondo. Sogna di essere un avvocato, oppure un filosofo: in ogni caso, sogna il Bene, la Giustizia, il miglioramento, l’aiuto, la tolleranza, l’Amore senza secondi fini .
G.: E’ un personaggio perfetto, commovente: io mi sono commossa, leggendo.
R.P.: Grazie. Io l’ho amato molto, l’ho amato veramente tanto. Humberto è poetico, è la Poesia che cala in questo mondo di silenzi pesanti: i suoi, invece, sono pensieri da funambolo.
G.: Fra gli altri, c’è poi il personaggio del “vecchiaccio cattivo”, che mi ha ricordato il cinico Numero Uno dei fumetti di “Alan Ford”: un grande vecchio che sembrerebbe fragile ed indifeso, e invece tiene in scacco i familiari.
R.P.: Beh, come spesso avviene, certuni sono così abili nel mentire che costruiscono castelli di carte che con un soffio potrebbero cadere e invece resistono, perché hanno una bava che è colla. In realtà questi distruttori, questi demoni che all’inferno non vanno mai da soli ma si portano sempre dietro qualcun altro, nella vita riscuotono tanto: nelle famiglie dove c’è il “burbero”, se ti fa un sorriso è una cosa straordinaria; se chi sorride tutti i giorni, un giorno fa una faccia dura, tutti si chiedono perché lo abbia fatto, che cosa abbia contro gli altri. Che la bontà paghi poco è cosa vera.
G.: Deus ex machina una pittrice stravagante: ex-medico, ex-sposa greca, probabilmente anche ex donna inquadrata, a un certo punto diventa libera e liberata. E’ Luciana, un personaggio che, però, tu non hai inventato.
R.P.: Infatti: è una pittrice che esiste realmente; l’ho romanzata, perché quando si scrive di qualcuno, anche se è vivente, si inventa sempre quando si scrive. E’ Luciana Albertini, che negli ultimi venti anni mi ha molto coinvolto come individuo, ma soprattutto come grande pittrice: allora ho sentito il desiderio di mettere un personaggio così “guerriero”, con una forza schiacciante, omerica, in una famiglia di anoressici sentimentali per squadernare e portare scompiglio che – non stiamo rivelando nulla della trama – genererà terrore puro. Smuovere le acque è sempre importante, lì dove si stagna.
G.: Fra tutti i personaggi, ultimo e non ultimo è sicuramente il Portogallo, come la città di Lisbona, cui tu sei particolarmente legata. Fra l’altro, “Ovunque io sia”, cioè la prima parte della storia di questa famiglia, è stata pubblicata da una casa editrice che ti era molto cara (“Cavallo di ferro”: n.d.r.), la Casa che hai fondato, perché fra le mille abilità di Romana Petri c’è anche quella di essere stata editrice. Però anche questo Portogallo è, come la famiglia che racconti, imperfetto: forse vanno a braccetto?
R.P.: Vanno molto a braccetto: i Portoghesi sono davvero chiusi, un po’ tetri, un po’ invidiosi gli uni degli altri, parlano poco, non si baciano, in famiglia non ci si tocca… Sì, hanno il loro fascino, ma è un fascino cupo: la brillantezza, la gioiosità bisogna proprio tirargliele fuori; per loro, mostrare le proprie emozioni è una sorta di vergogna.
G.: Ma tu, in questo libro, gli hai voluto bene…
R.P.: Sempre voglio bene al Portogallo, per carità: è una specie di mia mezza patria. Si vede tutto roseo di un Paese che si visita, l’occhio incantato è quello del turista. Io credo che ci sia molto amore verso il Portogallo da parte mia, ma anche molta oggettività: il mio è l’occhio disincantato dalla quotidianità.
G.: Nel libro ci sono anche tante ricette, tanta pittura, molto paesaggio, e molto di Romana Petri, che ritroveremo presto in un nuovo libro, perché Romana Petri non si ferma mai: ci puoi anticipare qualcosa?
R.P.: Ancora non so che cosa pubblicherò: ho sempre il cassetto pieno e devo solo decidere che cosa ne tirerò fuori!
G. : …E noi non vediamo l’ora…!