Reliquie
Mi angosciano i cimiteri, con quei volti dei morti fissati sul marmo: fotografie, a volte rubate a momenti felici, altre a voler dare di sé un’immagine ufficiale che nulla racconta dei defunti, di chi essi siano stati in vita, se donne e uomini giusti o causa di dolore per chi li ha incontrati; mi angoscia quel più niente da fare, quel tutto già fatto, né mi consola il sapere che tutti soffriamo per la definitiva assenza di qualcuno così come mi stomaca l’odore di fiori marciti, che ammorba l’aria dei sotterranei in cui quei corpi disfatti staranno ammassati finché i provvisoriamente vivi non li sfratteranno, per prenderne il posto.
Mi angosciano, i cimiteri, e li frequento il minimo necessario per controllare che tutto sia in ordine, tutto sia pulito: estremo segno di cura per chi (forse sì, forse no) ci segue da chissà quale dimensione.
“…Ma nel mio cuore nessuna croce manca…”, cantava dolente il Poeta, celebrando chi morì in battaglia.
L’esito delle battaglie combattute nelle vite che furono di chi ancora mi è carissimo ha lasciato in me molte croci, è vero, ma anche molte reliquie: reliquie, sì, residui di una vita, frammenti di un passato che – io lo so bene – è stato ricolmo d’amore.
La mia casa ne è piena: non solo ho oggetti dei miei genitori (soprammobili, libri, posate, qualche vestito persino), ma anche di chi mi ha molto amato e ancora moltissimo amo.
Di questi ultimi ho fatto un piccolo inventario: il cavallino di vetro di Murano e la pipa in legno che mi regalò uno zio che ho amato come un padre, ricambiata dello stesso affetto (la sua morte precoce è stato il primo, immenso dolore della mia vita); la vecchia macchina da scrivere che, con i suoi modi burberi e asciutti, mi regalò con infinito amore un altro zio; i dischi a 45 giri degli anni ’60 (Celentano, Gene Pitney, Mina e Rita Pavone) e le loro custodie, che altri zii che se li erano regalati da fidanzati mi hanno affidato, certi che nelle mie mani quei ricordi della loro giovinezza (e soprattutto del loro amore) sarebbero stati al sicuro; le vecchie foto, a me specificamente affidate da un altro zio ancora che ben sapeva il mio amore per le storie della mia grande famiglia, in cui zii e cugini non sono per ciascuno di noi che altri genitori, altre sorelle e altri fratelli, e i figli degli altri sono sempre e comunque figli nostri, chiunque li abbia generati; il ciondolo a forma di coccinella che mi regalò una zia alla fine di una bella vacanza, consegnandomelo con le lacrime agli occhi per il dolore di separarci e ringraziandomi (lei, che mi aveva ospitato, nutrito e coccolato per settimane!) della allegria che – disse – avevo portato nelle sue giornate; e la spilla a forma di tartaruga, di filigrana d’argento e smalti, regalo di un’altra zia che conosceva il mio amore per la bigiotteria e per quell’animale, che ancora non sapevo per me totemico; o l’articolo di giornale, che parlava di me e del quale non avevo notizia, trovato e recuperato con orgoglio da un cugino che consideravo un fratellino più piccolo, e la vita mi ha strappato troppo presto e troppo male.
Ho reliquie anche di chi non ho conosciuto, eppure amo attraverso l’amore che per loro avevano i miei genitori: di mio nonno Angiolo, per esempio, un autentico genio della meccanica che per di più sapeva disegnare magnificamente, ho un portamine che portava sempre nel taschino della giacca, un piccolo orologio a pendolo costruito e dipinto da lui stesso e un divertente porta sale e pepe in vetro, regalatogli da non so chi perché riproduceva il modello della sua Ford T; di mia nonna Giovanna conservo un poggiatesta di lino che, da ragazza, aveva ricamato finissimamente a filet perché il ricamo era, con la lettura, il passatempo preferito nei pochi anni felici della sua vita; nulla ho invece del nonno Giovanni, morto – come nonno Angiolo – a cinquant’anni o poco più, e me ne dispiaccio tanto.
Dell’unica nonna che ho conosciuto, nonna Peppina, ho invece un vero tesoro: le lettere che ci scrivevamo, le sue e anche le mie, che lei conservava e che mia madre, trovandole alla sua morte, aveva a sua volta gelosamente e silenziosamente custodito. Nonna Peppina se ne è andata che avevo otto anni e ritrovarmi inaspettatamente quei fogli azzurri fra le mani, rivedere la grafia di lei e riconoscere la mia infantile ha addolcito il momento di lancinante dolore che stavo vivendo e che mi aveva permesso, inaspettatamente dicevo, di ritrovarle.
Perché l’amore, quello vero, è eternamente consolatorio: le reliquie che custodisco ne sono testimonianza.
Sono quelle reliquie, prive di qualsiasi valore venale ma per me più preziose dei diamanti, che ogni giorno, costantemente, me lo dimostrano.
Per questo celebro i miei cari che non ci sono più nel giorno dei Santi: perché il loro ricordo rinnova sempre un miracolo d’amore.
Questo sono, i santi: testimoni d’Amore.
“In my life, I’ve loved them all”
Il dolore per la mancanza di chi abbiamo amato e non c’è più è incancellabile, è senza rimedio, e il ricordo spesso lo acuisce: e tuttavia, talvolta, le reliquie, sia pure per un piccolo istante, possono lenirlo.
Forse.
(Giancarla Paladini)
Canzone consigliata: “In my life”, Judy Collins
(Foto: “Cavallino in vetro di Murano- Archivio personale)