“L’ultimo arrivato”:chiacchierata con Marco Balzano

balzano immagine“L’ultimo arrivato”, Marco Balzano

Sellerio Ed

pagg 212

 € 15,00

 

Se non avessi mai visto una sua immagine, Marco Balzano me lo sarei immaginato proprio così com’è: riccioli abbondanti e pericolosamente tendenti all’anarchia, lo sguardo guizzante e una voce affannata dalla necessità di dare vita alla cascata di intelligenti parole che si precipita irruenta dalla sua bocca verso l’interlocutore.

Eppure, quando scrive Balzano centellina parole e stati d’animo, non spreca nemmeno una virgola, un sorriso, un respiro.

Per questo ho voluto leggere e commentare con lui “L’ultimo arrivato” (Sellerio Ed), romanzo intenso e asciutto in cui ci fa vivere, o rivivere, la storia di un vero e proprio esodo dal Sud, o da certe altre plaghe ancora troppo prossime alla miseria del passato, al Nord dell’Italia del boom economico, rampante, cinica, ignota e idealizzata: migliaia di ragazzini agli albori degli anni ’60 vennero “spediti” a Milano, Genova e Torino (il famoso “triangolo industriale”) con la speranza di un lavoro che garantisse loro, letteralmente, la sopravvivenza. “Bambini sperduti” in un mondo sconosciuto, ostile, talvolta spietato; bambini costretti a lavori pesanti e sottopagati; bambini spesso sfruttati e imbrogliati dai loro stessi compagni; bambini obbligati a barattare l’infanzia per una paga sicura e il miraggio del benessere; bambini che, adulti a soli quindici anni, a sedici già si sposavano per trovare un calore familiare mai conosciuto prima. Ce l’hanno fatta, quei piccolini, a crescere, a trovare lavoro e comperarsi il frigo nuovo e la tv e la lavatrice e persino la casa popolare; ce l’hanno fatta a furia di durissimi turni in fabbrica e sacrifici tali che nemmeno più si sono domandati, a un certo punto, se la loro fosse veramente una vita appagante, dignitosa, felice.

E così, di quella generazione non si è (… mai? … più?) parlato.

Lo sa bene Marco Balzano, che per raccontare la storia di Ninetto Pelleossa ha intervistato molti di quei reduci ed ha ascoltato i loro racconti, per poi riunirli e mescolarli fino a creare una biografia universale: non solo pensando ai migranti di ieri, intendo, ma lasciando che fosse il lettore a chiudere un cerchio che, purtroppo, si rivela invece una triste e attualissima spirale.

Terzo ed ultimo capitolo della trilogia che Balzano ha dedicato al problema dell’emigrazione (vd i precedenti “Il figlio del figlio”, Avagliano Editore, e “Pronti a tutte le partenze”, Sellerio), questo suo bel romanzo, a dispetto del titolo, lo ha fatto “arrivare primo” facendo vincere a lui (e, per la seconda volta consecutiva, a Sellerio) il prestigioso Premio Campiello.

Troppo facile dire ora che avevo scommesso su di lui: ma è la verità, e la voglio ribadire proponendovi l’intervista, arricchita dalla bella lettura  di alcune sue pagine che Balzano ci propone, registrata ben prima della sua vittoria veneziana.

Ecco l’intervista a Marco Balzano, il cui sonoro originale trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.

Canzone consigliata: “Era la terra mia”, Ron

 

Giancarla: Ecco un altro ospite che volevo assolutamente nel nostro piccolo “salotto”: Marco grazie, anche perché sto sottraendo tempo alle tue meritate vacanze. Come stai?

Marco Balzano: Bene, grazie. Ciao a tutti! No, no, non sottrai tempo: son contento di parlare con voi.

G.: Allora non è che ci riassumeresti la trama di questo bel libro?

M.B.: Volentieri. “L’ultimo arrivato” sembrava un titolo adeguato, a me e all’Editore, perché dovrebbe rendere al meglio l’idea di immigrati che si ritrovano in un posto nuovo, verso una legittima ricerca della felicità o del miglioramento della propria condizione, e cercano di risalire, faticosamente, la china. Così è adesso, così è sempre stato: nel 1960 lo è stato anche per molti bambini e minorenni, che dalle zone più povere del Sud (ma non solo: spesso anche del Veneto o della bassa padana) lasciavano i luoghi d’origine per riversarsi nelle città del triangolo industriale in cerca di fortuna. Mi ha stupito incappare in un argomento come quello dell’emigrazione minorile e ritrovarlo ancora così vivo e niente affatto episodico ancora all’inizio degli anni ’60. E così, questa è la storia di un bambino di dieci anni, Ninetto, che vive alle pendici dell’Etna in un piccolo paesiello che si chiama San Cono; a dieci anni lascia il paesiello con un compaesano ed emigra fortunosamente al Nord prendendo il Treno del Sole, quel convoglio che trasportava gli emigranti da Sud a Nord e arrivava fino a Torino; lui scende a Milano (la città in cui vivo e che conosco meglio) e qui vive fino ai quindici anni molto on the road, alla ventura, cercando di fare il primo lavoro che capita, di sbarcare il lunario come può, dormendo alla luna, dormendo per strada o a casa di gente, facendo il galoppino, il muratore, il barista, fino a quando compie quindici anni, cioè l’età in cui la legge prevede si possa entrare in fabbrica. Così inizia una vita molto più stabile, la povertà è lasciata alle spalle; quello che ci rimette è senz’altro la dimensione dinamica, fantasiosa, vivace della strada di prima, che viene sacrificata in nome, appunto, di una vita che si avvia ad essere adulta in tutto e per tutto. A quel punto, i migranti minorenni devono colmare una grande falla della loro vita, quella sentimentale, e quindi, generalmente, a quindici-sedici anni si sposano; alla mia età (io ne ho trentasette) spesso a intervistarli ti raccontano che erano già nonni… e questo, nell’epoca dei “bamboccioni” (come spesso chiamano anche le persone come me, che sono rimasto in casa coi genitori qualche anno in più per finire gli studi e cercare di trasformare in moneta spendibile tutte le aspirazioni della gioventù)…! E, insomma, si sposano, diventano presto padri e, appunto, alla mia età nonni. Ninetto entra nella catena di montaggio e ci sta trentadue anni; un giorno, preda delle sue paure, dei suoi tabù e anche dei suoi limiti culturali, perché ha studiato solo fino alla quinta elementare, “usa il coltello” con la persona sbagliata e nel modo sbagliato. Capiamo che la sua voce ci arriva dal carcere di Opera, dove sta scontando gli ultimi giorni di una pena durata dieci anni (lui adesso di anni ne ha quasi sessanta) e sta per ritornare alla libertà, a casa dalla moglie e in una Milano che, nel frattempo, è però profondamente cambiata: non è più quella del boom economico ma quella dei “neo-ultimi arrivati” che, paradossalmente, vedono in quella Sicilia un approdo e poi una risalita faticosa di tutto lo Stivale per arrivare, ancora e nuovamente, a Milano, che nel libro non è un semplice sfondo, ma un vero e proprio personaggio protagonista. Quindi, ritroviamo Ninetto quasi sessantenne che cerca di rifarsi una vita in una Milano cambiata, cerca di recuperare il rapporto con la moglie, con la figlia, che sembra non avergli perdonato nulla di quello sbaglio: farà fatica a rifarsi una vita, però incontrerà questi nuovi “ultimi arrivati” come lui, non sempre capendoli ma provando, in qualche modo e faticosamente, a confrontarsi. Quello che capisce è che è difficile rifarsi una vita: una volta che si cade a terra, non è semplice rialzarsi, specie per chi ha avuto pochi strumenti e poche possibilità, come lui. Il più grande desiderio che gli rimane è quello di raccontare la sua storia alla persona più innocente che conosca, in modo che, forse, raccontare possa davvero assumere il significato di lasciare prova di essere esistiti: questo destinatario è la nipotina di cinque anni, che non aveva mai conosciuto ma che un giorno riesce a incontrare per casa e che quasi “rapisce” portandola in quei luoghi dell’abbandono, le periferie che lo avevano accolto, e che adesso sono ancora i luoghi degli “ultimi arrivati”.

G.: Come si capisce, al di là delle tue pagine che sono molto “asciutte”, è una storia assolutamente densa di momenti di riflessione. Come ti è venuto in mente di scrivere un romanzo su questo argomento?

M.B.: Anche negli altri due romanzi precedenti (“Il figlio del figlio”, Avagliano Editore, e “Pronti a tutte le partenze”, Sellerio: n.d.r.) mi ero occupato di emigrazione, quindi una certa familiarità col tema c’era; come ti dicevo, mi sono imbattuto quasi per caso nella scoperta dell’emigrazione minorile e a pensare che fosse ancora così viva negli anni ’60 e soprattutto che i protagonisti di questo fenomeno non siano di un passato remoto ma siano ancora vivi e testimoni assolutamente affidabili del tempo presente, realizzando che questi emigranti-bambini oggi hanno circa settant’anni, sono andato a intervistarne qualcuno. Devo dire che la cosa di cui sono contento, e che è stata realmente la molla della scrittura, è che ne ho intervistati una quindicina senza carta né penna e ho lasciato che le loro parole, le loro testimonianze, si confondessero poi liberamente in me, in modo da non condizionarmi troppo, lasciandomi libero di creare un personaggio di fantasia che, nello stesso tempo, li riassumesse e li superasse, in una idea di realismo letterario che non deve essere manualismo di storia: un realismo che, senza riassumere la realtà, la riarticoli, la riproponga.

G.: Parliamo del linguaggio, perché i protagonisti (e soprattutto Ninetto) hanno un linguaggio infarcito di dialettismi: questo stile ti ha creato dei problemi nella scrittura o, al contrario, ti è venuto naturale?

M.B.: Guarda, il linguaggio è stata veramente la chiave di risoluzione: io, se posso dirti la verità, non sono proprio d’accordo che il testo sia “infarcito” di dialettismi; Ninetto ha una lingua molto vivace, molto ibrida, che mescola qualche parola che gli è rimasta in testa del dialetto di origine, italianizzato, e qualche parola del dialetto che ha incontrato arrivando, il milanese. Ne è nato un impasto ibrido che ha reso il romanzo, secondo me, divertente, ironico, che me lo ha sfilato dal rischio di raccontare in maniera patetica un argomento senz’altro “tosto”; quindi servivano da una parte la voce del bambino che sdrammatizzasse, e dall’altra un linguaggio che fosse vivace e capace di rendere tutta la commozione, dall’ironia al drammatico, che attraversa la vita, così ricca e avventurosa, di questi personaggi.

G.: E infatti, il linguaggio -lo hai detto molto bene- è proprio la chiave di volta di questo bel libro, che si avvale anche di un gioco continuo di flash-back che, ovviamente, funziona a meraviglia; però mi permetto di farti una domanda un po’ indiscreta… Aiuta di più il lettore a muoversi meglio nella storia, o è servito a te per raccontarla meglio?

M.B.: Ti ringrazio della domanda, perché mi sta molto a cuore chiarire questa cosa. Il libro inizia con la voce del bambino, questo picciriddu che non ha nemmeno dieci anni e racconta l’antefatto che lo ha spinto a lasciare San Cono per andarsene a Milano una volta e per sempre; poi, a un certo punto, dopo trenta-quaranta pagine, capiamo che questa voce non arriva da un bambino, ma dal cinquantasettenne Ninetto che sta per uscire dal carcere di Opera, dove ha scontato questa pena di dieci anni; siccome non ha niente da fare, se ne sta con le mani dietro la testa e gli occhi chiusi sul materasso scalcagnato del carcere a raccontarsi la sua storia, come se non avesse più nulla in mano. Dopo, il libro perde sempre di più la voce del bambino e guadagna sempre di più la voce dell’adulto, perché non è un affresco degli anni ’60, non è un romanzo sociologico: per me era interessante scrivere un racconto che partisse da quella esperienza ma poi finisse nel presente, perché l’idea di una memoria che sia solo celebrazione, affresco di un episodio avvenuto, trascurato ma importante, a me non interessava. Mi interessava una novella che problematizzi il presente, per cui dovevo trovare il modo per far finire la storia nel nostro oggi e far sì che quel passato servisse ad illuminare, a problematizzare di più, il nostro presente: ecco perché c’è la doppia dimensione temporale.

G.: …Che è appunto, lo ripeto, molto affascinante ed è veramente incalzante anche come ritmo. Vogliamo anche ricordare (siccome tu, giustamente, hai parlato della tua opera di documentazione sui personaggi che poi vengono rappresentati dal protagonista e non solo) che comunque siamo di fronte ad un’opera letteraria e la letteratura è l’altra grande protagonista dell’opera, quella, diciamo, “trasversale”, con l’amore di Ninetto per la poesia e poi la voglia, da autodidatta, di leggere, approfittando del fatto che ha tanto tempo e certi libri, pur essendo meravigliosi, costano pochissimo; però, dentro ci sono anche degli omaggi, se mi permetti questa riflessione personale, al bel Verismo (e questo è un aggancio quasi scontato!), ma forse c’è anche un pochino di Dickens…Soprattutto ci se tu, che sei “matto” per la letteratura: vero?

M.B.: Sì. Ti ringrazio dei paragoni fin troppo lusinghieri: diciamo che ideologicamente senz’altro li ho tenuti a mente. E’ vero che questo è un romanzo, cioè una vera e propria storia di invenzione, che si basa su una conoscenza dei fatti, la ricostruzione di un periodo storico e di un presente secondo me quanto mai attuale, su uno sfondo scenico che è principalmente Milano, una città che io conosco bene. Poi però, proprio perché un romanzo deve servire certamente a recuperare storie, a metterci in collegamento con vite che non sono la nostra, secondo la mia concezione di scrittura, a me non interessa qualcosa che sconfini nel sociologico; quindi deve essere una storia piacevole da leggersi con l’abat-jour sul comodino, nel letto, la sera, dieci minuti prima di crollare dopo una giornata lavorativa, questo è l’obiettivo. I riferimenti? Sì, senz’altro ci sono, nel senso che un certo Verismo, è inutile negarlo, c’è, anche se il Verismo ideologicamente è presente ma poi, se ci fai caso, viene tradito un po’ in tutto e per tutto, nel senso che non c’è la terza persona, non c’è il coro di una comunità che parla e giudica…Mi piaceva prendere determinati modelli per poi tradirli e, tutto sommato, attualizzarli. Per quanto riguarda invece l’amore per la poesia e per la letteratura, c’è: ce l’ha il protagonista, è ovvio che ce l’ho io (se no non farei quello che faccio, cioè non insegnerei, non scriverei…) e ce l’hai anche tu, che fai queste cose, e anche chi i libri li prende, quei pochi che li prendono …Quindi, sì, c’è: ma quello che mi stava più a cuore era dare anche a Ninetto questo amore per la letteratura e per la poesia. Uno dei personaggi per me fondamentali del libro, anche se non è un protagonista, è il Maestro Vincenzo, maestro di scuola elementare, suo dirimpettaio, che con Ninetto ha un rapporto privilegiato: fanno la strada verso scuola assieme, il maestro gli insegna a memoria le poesie di Pascoli… Il Maestro, prima che parta, gli regala un diario e gli dice: “Scrivilo, perché ti sentirai piuttosto solo, lassù”. E Ninetto avrà il senso di colpa per non essere mai riuscito a scriverlo: però, nella mente gli rimarrà sempre questa figura del Maestro. L’idea che anche un “ignorante”, diciamo così, possa fare pensieri “importanti” e possa trovare nella letteratura, nelle parole degli altri, un appiglio e, come dice Primo Levi, sentirle “… come parole salvate”, questo è un messaggio che a me interessa moltissimo: “sfilare” la letteratura da una proprietà elitaria degli addetti ai lavori.

G.: Eh, sì…Che, poi, è esattamente il compito dell’insegnante: rendere popolare la frequentazione con le cose migliori prodotte dall’uomo… Certo quella del Maestro è una figura bellissima. Tu sei un insegnante e mi verrebbe da farti una domandina… “facile facile” …: com’è la scuola, oggi?

M.B.: “Facile facile” …per niente! Mah, la scuola…

G.: Mi riferisco in particolare al rapporto fra insegnante e allievo, perché è un rapporto assolutamente formativo. Il maestro di Ninetto è il suo “padre dell’anima”, no?

M.B.: Sì, senz’altro, senz’altro. Il Maestro è per lui veramente una sorta di guida spirituale, che rimarrà viva anche quando passeranno gli anni. Il libro inizia che a Ninetto, nel carcere di Opera, sembra di vedere giù, nello spazio dell’ora d’aria, il Maestro; quasi un’allucinazione, il Maestro che passa e viene accompagnato da un secondino come se andasse a fare lezione a qualcuno. Vedendolo, gli scatta la voglia di raccontare a voce quel diario che non ha mai scritto: la storia inizia con questa sorta di visione… Mi viene in mente una frase di Gesualdo Bufalino, un autore che io amo molto; in una delle sue ultime interviste disse: “In ogni società civile i veri depositari della rivoluzione sono i maestri elementari”. Sottoscrivo le sue parole: io non saprei dire di meglio. Potrei solamente aggiungere che la scuola rimane per me un mondo dove è possibile praticare una “resistenza” nel senso letterale del termine; è cioè possibile “resistere” a una sorta di informazione orizzontale, di semplificazione, è possibile ricreare una dimensione della gratuità -non importa da dove vieni, quanti soldi hai…- e questo … non so, rende la scuola veramente una forma di “resistenza” e di ri-creazione di una società più giusta che a me, al di là di tutto, affascina molto… E quando sento dire dagli adulti “Come sono, questi giovani di oggi!”, beh, insomma… mi preoccupano di più gli adulti di oggi, dei giovani di oggi, se devo dire la verità! (L’insegnamento) come tanti lavori predispone anche al fallimento; su trenta, non ne becchi trenta, ci sarà sempre qualcuno per cui non vale la pena alzarsi al mattino; ma ci sarà anche sempre qualcuno per cui vale la pensa di alzarsi al mattino e andare in classe.

G.: …Che bello…! Ma facciamo un piccolo passo indietro, anche in riferimento a quello che tu dicevi all’inizio, e cioè la relazione con i tuoi libri precedenti: dal tuo punto di vista, questo libro come si colloca nel tuo percorso di scrittore?

M.B.: Penso che questo libro chiuda una trilogia che avevo in testa sull’emigrazione. Il primo romanzo, “Il figlio del figlio”, raccontava una storia più biografica, era un “on the road” familiare; c’erano questo nonno, padre e figlio che partivano da Milano e andavano insieme a vendere la casa sul mare, in Puglia, in cui nessuno andava più; la casa era fortemente simbolica, perché simboleggiava per il nonno la sua memoria di contadino prima dell’emigrazione, di uomo che è cresciuto lì ed è testimone di un mondo pre-urbano, che aveva fatto la guerra, è stato antifascista; per mio padre, un ragazzo che se ne deve andare durante l’adolescenza per andare a cercare lavoro a Milano con i propri genitori; per il “figlio del figlio” è le estati dell’infanzia, i primi amori… Insomma, era una emigrazione “familiare”. Il secondo libro, “Pronti a tutte le partenze”, è invece una migrazione più intellettuale, una storia su un trentenne d’oggi che nonostante tutti gli studi fatica a capire dove deve stare, come convertirli per costruirsi una vita e rimanere attaccato alle proprie aspirazioni: qui mi interessava anche smitizzare l’idea dei “cervelli in fuga”, di tutta la gente che “… E’ giusto che ce ne andiamo di qui tutti quanti”; mi interessava invece sottolineare che qualcuno che pensi e che sappia le cose è bene che resti, sennò non ci rimane più nessuno e il posto dove viviamo diventa sempre più debole e sempre più in balìa dei più prepotenti. Con questo romanzo, invece, affronto il tema particolare che ti ho raccontato e penso che chiuda una piccola trilogia. Il prossimo lavoro parlerà di altro: ho in testa la storia di un fratello e una sorella che si sono persi di vista e che si ritrovano a confrontarsi dopo tanti anni.

G.: Non vediamo l’ora di leggerla. Grazie.

 

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