GIUSEPPINA TORREGROSSA “IL FIGLIO MASCHIO”
RIZZOLI (2015)
Pagine: 320
€ 18.50
Ci sono vite che sembrano uscite da un romanzo: vite come quelle che ora vi dirò.
E ci sono romanzi che, raccontandole, si fanno amare, amare, amare: come quello che ora vi dirò.
Sommatino (Caltanissetta), 1924.
Concetta Russo ha poco più di quarant’anni e dodici figli, avuti dal marito Don Turiddu Ciuni: un matrimonio ben riuscito, il loro, fondato sull’amore, sulla passione e sul rispetto reciproco.
Una sola, grande divergenza di opinioni fra marito e moglie, e non è questione da poco visto che riguarda il futuro della loro smisurata prole. Per Turiddu il gabbelloto, che ama la sua terra con lo stesso trasporto con cui ama sua moglie, è del tutto logico e naturale che i figli maschi gli subentrino nella gestione del Feudo di Testasecca; Concetta, al contrario, esige che tutti i loro ragazzi studino – anche le femmine – e ora vuole, caparbiamente, che la via delle lettere sia seguita da Filippo, il suo prediletto. Posizione ultra-tradizionalista quella del socialista Turiddu, posizione ultra-progressista, specie per i tempi, quella della per altre cose acquiescente Concetta.
La spunterà lei: Filippo Ciuni, il figlio maschio preferito, deciderà di aprire una libreria e poi anche una casa editrice, che pubblicherà, fra gli altri, scritti di Benedetto Croce. Ma Filippo non è il beniamino solo della madre: anche la “spigolosa” sorella Concettina stravede per lui e come lui ama i libri; anzi, la collaborazione assidua e appassionata di lei sarà fondamentale per la riuscita della sua attività.
Alla morte di Filippo, a proseguire sulla via tracciata dallo zio sarà il figlio di Concettina, Vito Cavallotto, spinto fortemente dalla madre che riversa su di lui, il figlio maschio preferito, tutta la devozione che nutriva per il fratello. Vito, bellissima figura di uomo intelligente e sensibile, non fallirà: solo il Fato avrà ragione di lui.
Nomi, cognomi, date, luoghi: tutti veri e tutti documentati nel libro che sto per proporvi, che tuttavia non è una biografia ma il nuovo, avvincente romanzo di Giuseppina Torregrossa.
“Il figlio maschio” (Rizzoli) ripercorre infatti quasi un secolo della storia della famiglia Cavallotto, tutt’ora importante protagonista dell’editoria siciliana (anzi, visitate il sito delle Librerie Cavallotto: www.cavallotto.it).
Se le vicende raccontate nel libro sono vere, trattandosi tuttavia di un’opera letteraria la scrittrice palermitana ha creato molte situazioni narrative che la sua felice ispirazione coniuga perfettamente con la verità storica della famiglia Cavallotto, a lei consegnata dalla oggi ottantenne moglie di Vito, signora Adalgisa, e dalle sue figlie; donne speciali, che alla morte prematura di Cavallotto, malgrado abbiano dovuto affrontare il dolore straziante della perdita insieme ad ostacoli che avrebbero scoraggiato i più, hanno impugnato saldamente le redini delle librerie e della casa editrice di famiglia, traghettate ai nostri giorni con coraggio, passione e competenza.
Leggendolo scoprirete che, a dispetto di quanto potrebbe suggerire uno sguardo frettoloso al titolo, le vere protagoniste di questo romanzo sono proprio le donne, che prendono di petto la vita e amano il loro uomo con tutte se stesse, anche quando il loro amore non è ricambiato, anche quando impone sacrifici e rinunce, anche quando non è amore carnale ma quello, altrettanto intimo e indomabile, per un figlio o un fratello: un maschio, appunto. E gli uomini, i maschi di Giuseppina Torregrossa lo sanno bene: che le apprezzino o le subiscano, che le amino o le osteggino, sanno bene che senza le loro madri, sorelle, mogli e figlie ben poco esisterebbe del loro successo e della loro stessa stabilità.
Lo sanno benissimo anche le lettrici, che all’Autrice confidano pensieri e paure, ringraziandola per la forza che traggono dai potenti personaggi femminili dei suoi libri; e così pure gli uomini, che le sono grati perché la sua scrittura li aiuta a capire meglio la sensibilità femminile.
“Il figlio maschio” si accosta armoniosamente ad un precedente romanzo dell’Autrice, “La miscela segreta di Casa Olivares (Mondadori, 2014), che racconta un’altra saga familiare siciliana.
Sono le prime due opere di una trilogia che si compirà in un prossimo futuro?
Forse la risposta vi arriverà ascoltando e leggendo l’intervista a Giuseppina Torregrossa, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
N.B.: Il sonoro comprende anche la lettura fatta dall’Autrice di alcune pagine del suo romanzo.
Canzone consigliata (… in verità, eccone due, e non solo per i testi): “L’Angelo e la pazienza” e “Il talento delle donne”, Ivano Fossati.
La prima è un tango e la seconda, se ascoltate bene bene, pure: … e penso che a Giuseppina Torregrossa possano piacere entrambe.
GIANCARLA: E’ inutile dire del mio piacere nel ritrovare le pagine di Giuseppina Torregrossa e, in questo caso, anche la sua presenza con noi: come sta?
GIUSEPPINA TORREGROSSA: Bene, grazie: lei come sta?
G.: Molto bene, anche perché ho appena finito di leggere il suo bel libro ed è stato molto piacevole attraversare la storia di questa famiglia: anzi, non che ci riassumerebbe qualcosa della trama?
G.T.: E’ un racconto semi-vero, nel senso che i fatti sono realmente accaduti e i personaggi sono realmente esistenti; è una saga familiare, ma non ha la pretesa di essere una biografia, naturalmente, è la narrazione di una storia per certi versi vera. (Protagonista) è una famiglia legata dalla passione per i libri: il capostipite, Don Turiddu Ciuni, un gabbelloto, sposa una donna appassionata di libri e cugina di Luigi Russo, il grande critico, che segna un passaggio molto importante nella storia della sua famiglia, perché, all’improvviso, i figli decidono di non seguire le orme paterne. Soprattutto, il “figlio maschio” cui era destinata la terra decide, sostenuto e stimolato dalla madre, di diventare prima libraio e poi editore: è Filippo Ciuni, che scrive una pagina importante della storia dell’editoria siciliana e nazionale, pubblicando, in pieno “ventennio”, nonostante egli fosse un editore fascista, Benedetto Croce. Da lì comincia una schiatta di librai e di editori, perché la sorella di Filippo Ciuni lo segue, lo accompagna, lo aiuta in questa avventura e quando le nasce un figlio, Vito, a forza di schiaffi (talvolta materiali, talvolta metaforici) viene convinto a fare anche lui il libraio e l’editore. Il romanzo arriva ai nostri giorni: i Cavallotto sono una realtà ancora esistente, perché sono dei librai indipendenti della Sicilia orientale e sono ancora degli editori. Vito Cavallotto muore tragicamente nel 1983, ma rimane la moglie Adalgisa, che oggi ha ottant’anni, con le tre figlie, a tenere in piedi la storia di questo “figlio maschio” tanto curato dalla madre…Ma è soprattutto una storia d’amore, non solamente una storia di amore per i libri, non è semplicemente una storia di libri.
G.: Eh sì, è una storia di grandi amori, ma io per il momento li lascerei da parte, perché in questa storia che è sospesa tra l’essere un romanzo e non, c’è comunque un altro fil rouge, che è quello del coraggio: se posso, anche quello dell’Autrice, perché confrontarsi con qualcuno che non solo esiste, ma è anche della materia e assolutamente competente, richiede un’audacia che non è davvero frequente!
G.T.: …Beh, io…come dire? Sono abbastanza coraggiosa e mi assumo anche la responsabilità delle mie scelte, di quello che faccio. Adalgisa Cavallotto è una donna coraggiosa perché, quando muore il marito, nel 1983, nonostante non avesse vissuto l’esperienza editoriale del marito se non in qualità di moglie, nonostante non fosse mai entrata nel vivo del lavoro, lei, a dispetto della famiglia che vorrebbe, per proteggerla, farle vendere tutto e farla ritornare a casa ad occuparsi delle figlie, decide di tenere in pedi l’impresa del marito: quindi è certamente una storia di coraggio, perché è una storia di grande fatica. Tutto intorno a lei si muoveva un mondo di avvoltoi che desideravano farla fallire per poter acquistare le librerie con pochissimi soldi; fra l’altro, il marito muore lasciandola con dei debiti, perché c’era un mutuo molto importante cui lei doveva far fronte e c’erano tre bambine piccole, tre ragazzine di cui si doveva occupare, che non erano autonome e dovevano da sole tenersi in piedi. Per altro nell’83, il 31 gennaio, giorno del funerale del marito, la mafia, che aveva già fatto richieste di pizzo al marito, a Vito Cavallotto, le mette una bomba nella libreria di Catania chiedendo un pizzo di duecento milioni. Quindi è certamente una storia di coraggio e, soprattutto, di “resistenza”. Certo: io mi sono confrontata con la mia fantasia, che talvolta si è scontrata con il realismo di Adalgisa e con la realtà, perché è vero che questa storia è come un romanzo, ma è anche vero che per renderla interessante come un romanzo talvolta bisogna passare dalla “verità” alla “verosimiglianza”, talvolta interviene l’autore con la propria fantasia a inventare, a raccontare delle passioni che nessuno ha raccontato ma che si è semplicemente immaginato …e non sempre questo riceve l’approvazione dei “personaggi”!
G.: Beh, è incredibile raccontare persone “vere” che hanno storie come questa… Ho una curiosità: io ho letto il suo libro come… come una filastrocca, diciamo così, nel senso che ogni passaggio è collegato al successivo e questo mi è piaciuto molto; invece per lei scriverlo come è stato? Lo ha pensato così o i vari momenti, i vari personaggi le si sono presentati uno alla volta e poi li ha raccordati?
G.T.: No, l’ho pensato proprio così, perché è una storia lunga quasi cento anni, e una storia lunga cento anni può venir fuori come un romanzo molto lungo e c’è il rischio anche di un calo dell’attenzione del lettore; invece io avevo voglia di eliminare le ripetizioni e avevo voglia di tenere sempre attento il lettore, di dargli un amo continuo e di dirgli “Attento! Se perdi quest’amo, perdi il filo”. In realtà, alla fine è venuto abbastanza bene, questo tentativo, perché ogni capitolo è un personaggio che racconta la stessa vicenda da un punto di vista diverso e, nel corso degli anni, con salti temporali a volte anche di dieci anni, la vicenda si dipana senza ripetizioni e momenti di stanchezza raccontando i fatti salienti: perché poi, se immaginiamo la vita di ognuno di noi, i fatti salienti si possono raccontare in poco tempo, ma fra un fatto saliente e un altro magari ci sono degli anni in cui non succede nulla. E allora, perché raccontarli se non succede nulla? E’ una vicenda corale, è una sola ma raccontata da tanti personaggi, e ognuno dice la propria: in questo modo si riescono ad avere tante sfaccettature della stessa vicenda
G.: … che scorre via, a dispetto delle quattrocento pagine, molto velocemente: io veramente mi sono immersa nella lettura di queste pagine che mi hanno fatto fare lo stesso pensiero che avevo (perché l’aggancio penso proprio che ci sia) con “La miscela segreta di Casa Olivares”. Ero uscita dalla lettura del suo “Panza e prisenza” (Mondadori, 2012) e mi ero un po’ meravigliata: mi sono detta “Guarda questa scrittrice come cambia …”. Qui, invece, è come se ci fosse stata una specie di conferma: lei si trova assolutamente a suo agio nella descrizione dei pensieri reconditi, dell’animo umano.
G.T.: Sì, è proprio la parte che mi piace più fare, quella che io amo: ogni movimento del cuore e dell’animo, ma anche delle viscere, è un movimento interessante; è interessante scoprirlo e, soprattutto, fare in modo che sia coerente con quello che stai narrando, perché talvolta i fatti hanno delle giustificazioni emotive non facili da indagare, dei sentimenti non facili da indagare e che all’apparenza possono contrastare, mentre l’autore è in qualche modo chiamato a darne una giustificazione e fare un racconto congruo, in modo che i fatti possano coincidere anche con le motivazioni in maniera eclatante.
G.: Lei diceva prima che questo è, comunque, un libro d’amore; c’è tanto amore e tanto amore coniugale che culmina in quello, struggente, di Adalgisa per suo marito. Qui, però, c’è un altro collegamento con il suo romanzo precedente e cioè l’elemento… “sovrannaturale” o “magico”, se vogliamo definirlo così e ancora una volta è una figura femminile a mediarlo. Ma lei è un medico, una donna “di realtà”, di scienza: perché questo legame con quello che, invece, la scienza non spiega, eppure… eppure “c’è”?
G.T.: Intanto, ci tengo a dirle che “il magico” di questo romanzo, la dimensione ultraterrena, questo amore che va oltre la morte e la comunicazione fra Adalgisa e suo marito morto è una cosa che mi racconta Adalgisa stessa e che io non ho inventato: quindi non è “Dona Flor i suoi due mariti” (di Jorge Amado: n.d.r.), ma è frutto di una vicenda umana che Adalgisa mi racconta in prima persona. Sull’altro versante, devo dirle che sì, è vero che io sono un medico, ma l’equivoco è immaginare che la medicina sia una scienza. La medicina non è niente affatto una scienza: è esperienza; c’è molta medicina in uno sciamano e molta magia in un medico, ed è la dimensione che fa parte integrante del processo di guarigione, per cui io non rifiuto nulla aprioristicamente, anzi, mi ci lascio trascinare con passione in questi momenti di “magia”.
G.: Mi piace molto quello che ha detto: naturalmente, lei deve fidarsi della mia parola, ma io, fra i miei appunti (e avevo interrotto prima la domanda) avevo trovato questo collegamento con gli sciamani, cioè con gli “uomini-medicina” che erano anche qualcos’altro…Ma, sinceramente: non è che ci sta preparando una specie di “terzo capitolo” con un’altra saga familiare siciliana …?
C.T.:…Sì, certamente sì…ma non glielo dico…!
G.: Ah, va bene: e io faccio quella che non glielo ha chiesto…!