Quando ero piccola, Santa Lucia si annunciava qualche giorno prima del 13 dicembre con un trillo leggero: il suono del campanello, che accompagnava il suo incedere sull’asinello che era i suoi occhi, visto che lei non li aveva più e per questo teneva il volto celato. Era un suono allegro ma, al tempo stesso, per noi bambini terrificante. Sapevamo benissimo, infatti, che sentendolo dovevamo assolutamente stare fermi e zitti e soprattutto per nulla al mondo avremmo dovuto sbirciare: se Santa Lucia se ne fosse accorta (e potevamo stare certi che se ne sarebbe accorta) ci avrebbe punito gettandoci cenere negli occhi.
Questa cosa che una Santa – quindi, una persona buona – potesse essere tanto crudele con dei bambini non mi convinceva per nulla e pensavo fosse una esagerazione messa in giro da qualcuno, però io non intendevo rischiare occhi e regali, e stavo accorta.
Una sera (ero piccolissima) il campanello di Santa Lucia mi sorprese per strada: stavo uscendo dal portone di casa della mia amica per entrare nel mio, proprio lì accanto.
Panico.
Avevo bussato, ma non mi aprivano e io non potevo scappare da nessuna parte: allora, col cuore che batteva forte forte, mi sono girata verso il muro coprendomi gli occhi con le mani e sperando che l’asinello, il cui linguaggio Santa Lucia capisce benissimo (e se no, che Santa sarebbe?), le spiegasse che sì, ero per strada mentre lei stava passando, ma non lo avevo mica fatto apposta! … E poi non stavo spiando, anzi!
Quella sera, nel paesino della “Bassa” in cui vivevo c’era la nebbia, quella densa e fitta che non ti fa vedere da un lato all’altro della via: ricordo il gelo attraversarmi la schiena quando il suono si fece così vicino che mi sembrò di sentire l’asinello passarmi accanto, spostando l’aria. In quel momento il portone si aprì e mi slanciai dentro, ma per farlo dovetti sollevare la testa. Mi feci forza e osai.
Per fortuna, la Santa se ne era già andata (del resto, il suo asinello vola!): invece stava per essere inghiottito dalla nebbia un signore in bicicletta. Chissà se lui aveva visto qualcosa?!
Però a volte, invece, Santa Lucia decideva di farsi vedere: lo fece l’anno che ero all’asilo, nella classe dei “grandi”.
Le suore avevano dato molto risalto all’evento e noi avevamo fatto di tutto per essere buonissimi: anche io, che non a caso venivo chiamata “Gian-Burrasca”, cercavo di stare tranquilla.
Come promesso, Santa Lucia arrivò un pomeriggio, all’ora di merenda: era vestita di bianco, con una tunica lunga fino ai piedi; in testa aveva una coroncina di fiori e un velo, sempre bianco, che le copriva la faccia. Non parlò, ma mentre stava in groppa al suo asinello ci gettò alcune caramelle di zucchero dalla carta bianca sfrangiata di verde, rosso, giallo e arancio e infine salutò da lontano, agitando le mani vestite di guanti, ovviamente a loro volta bianchi: lo ricordo benissimo perché l’ho guardata con la massima attenzione, ma solo per poco, perché poi mi è sembrato che la Santa si girasse proprio verso di me e la mia amica, e allora tutte e due siamo scappate dentro l’asilo col cuore in gola, eccitatissime.
Le suore ci dissero che Santa Lucia era stata contenta di trovare dei bambini un po’ birichini, sì, ma non cattivi e per questo non ci aveva lasciato nemmeno un pochino di carbone.
Mi chiesi allora che cosa potessi avere fatto di male io, che invece quel 13 dicembre trovai fra i dolci, i mandarini e i giocattoli anche un pezzettino scuro scuro di carbone: dolce, d’accordo, ma pur sempre carbone…
Un’altra volta, temeraria, decisi che a-sso-lu-ta-mente dovevo rischiare: ovviamente sarei sgattaiolata fuori dalla mia cameretta dopo che papà e mamma se ne fossero andati a letto, sennò sarebbe successo un guaio. Così, dopo avere preparato la ciotola con le carote e l’acqua per l’asinello e latte e biscotti per la Santa, diedi la buonanotte a mamma e papà e, combattendo ostinatamente col sonno che calava, aspettai.
… Ma sembrava che quella sera, proprio quella sera, i miei non andassero più a dormire: i grandi, si sa, non hanno mai sonno!
Finalmente spensero la luce: aspettai ancora un pochino, scesi dal letto, abbassai lentamente la maniglia della porta della cucina, dove di solito trovavo i regali, accesi la luce e… i regali erano già lì, ben disposti sul tavolo da pranzo!
I miei genitori arrivarono di corsa, spaventati, e vedendomi lì allibita, in pigiama e piedi scalzi, mi chiesero:
“Ma che fai?!”.
“Volevo vedere Santa Lucia, ma lei è stata velocissima! Come ha fatto?”. Ricordo la risata di mia madre: “Ma scusa, davvero pensavi di farla a Santa Lucia?”.
… Eh sì, lo avevo davvero pensato…
Quando lasciammo la campagna per la città le cose un po’ cambiarono: per esempio, il conto alla rovescia scattava alla metà di novembre, il che rendeva l’attesa interminabile; a sancirlo era la comparsa, fuori da un negozio del centro, della “Cassetta delle letterine di Santa Lucia”.
“Infatti – mi spiegarono – quando non sai scrivere basta dire a papà e mamma che cosa desideri e loro lo riferiranno a Santa Lucia, ma se sai scrivere, eh beh, allora devi prendere tu carta e penna e insieme alla lista dei regali devi anche mettere nero su bianco il tuo impegno a comportarti in maniera giudiziosa. Altrimenti, niente Santa Lucia!”.
La letterina si scriveva a scuola, con tanto di disegno a raffigurare Santa Lucia, l’asinello, i regali, eccetera.
In realtà già da settimane fantasticavo su quale bambola avrei voluto e ne parlavo con le altre bambine: loro erano sempre certissime di quello che avrebbero ricevuto, come aspettassero una consegna del droghiere.
Strano…
E poi, mai chiedere niente di costoso: “Santa Lucia deve accontentare tanti bambini ed è povera” era l’altra cosa che ci ricordavano.
Dunque speranze sì, certezze mai, e così io non ero sicura per niente di niente e fino all’ultimo tremavo.
E’ che Santa Lucia, con me, ogni tanto si sbagliava: io volevo una bambola bionda? Ne arrivava una con i capelli corvini. Chiedevo i pattini? Arrivava la bicicletta. Desideravo “Il piccolo chimico” e “Meccano”? Trovavo “Coloredo” e i mattoncini Lego.
Niente di male, per carità, ma com’era che con le mie amiche Santa Lucia non si sbagliava mai e mai e mai? Dovevano essere più brave di me a scrivere, non c’era dubbio. O, magari, erano più buone e studiose: almeno, questo mi dicevo, lamentandomi con me di me stessa.
Comunque a Santa Lucia perdonavo tutto.
Sapevo che era arrivata perché, appena sveglia, il 13 dicembre trovavo sul comodino caramelle e cioccolatini. Poi cominciava la ricerca stanza per stanza e in ciascuna c’era qualcosa: un giochino, un dolce, un libro; ma era in sala che (finalmente!) la Santa lasciava il grosso dei regali, benissimo disposti, decorati con nastri argentati e palline di vetro (…che somigliavano pericolosamente a quelle che l’anno prima avevo visto sul nostro albero di Natale…: vabbè, coincidenze).
Non mancava mai una sua letterina nella quale, con l’inconfondibile grafia tonda da scuola elementare, si raccomandava che trattassi bene i giocattoli e fossi sempre “brava e giudiziosa”.
Colazione con i pasticcini, che lasciava perché anche papà e mamma ricevessero qualcosa di buono, e poi via a scuola, col giocattolo preferito: e pazienza se il mio era sempre un po’ diverso da come lo avevo richiesto.
Era felicità autentica, quella che provavo: era quello, oggi lo so, il regalo migliore.