BE MY BABY (Questa è una storia vera: sono solo canzonette?)
…E adesso vi racconterò quanta storia della musica, della tecnologia e del costume mondiale si celi dietro una canzone pop, una innocua canzoncina orecchiabile, semplice semplice, da canticchiare sotto la doccia.
Stati Uniti, 1963.
Il pianeta vive in una sorta di dualità schizofrenica: da una parte, lo scontro fra le cosiddette maxi-potenze (Stati Uniti contro Unione Sovietica) ha rischiato pochi mesi prima di trascinare l’umanità nella Terza guerra mondiale; dall’altra la gente comune, che, uscita da pochi anni dagli orrori della Seconda e rifiorita nel decennio del boom economico, ha un’inarrestabile voglia di vivere e di divertirsi.
La musica la fa da padrona specie fra i giovani, categoria che solo in quegli anni troverà per la prima volta nella storia visibilità ed un conseguente, riconosciuto peso sociale.
In quel lontano 1963 già c’erano i Beatles; la Motown pubblicava artisti meravigliosi come Marvin Gaye, The Supremes e The Marvellettes; The King Elvis The Pelvis Presley da alcuni anni aveva invaso il mondo con il suo rock ‘n roll e i Beach Boys avevano dovuto riconoscere a Chuck Berry (quello del “Duck walk” e soprattutto di “Johhny B. Goode” e “Roll over Beethoven” ) la parziale paternità autoriale di “Sweet Little Sixsteeen”: una boccata di ossigeno per Berry, appena uscito di galera per un affaraccio di sesso con una minorenne.
I più romantici potevano sempre contare su artisti come Frank The Voice Sinatra, gli appassionati di jazz su Ella Fitzgerald… e potremmo continuare ancora per un pezzo, perché l’elenco degli straordinari artisti attivi in quel periodo è praticamente infinito.
In ogni caso, tutto il mondo musicale era disponibile a contaminarsi: lo dimostrarono gli stessi Beatles, che in quel 1963 incisero la loro versione di “Please Mr. Postman” delle Marvellettes e “Roll over Beethoven” di Chuck Berry, appunto.
A segnare una tappa terribile di questo cammino così apparentemente pieno di luce sarebbe però arrivato, a novembre di quell’anno, l’assassinio del Presidente John Fitzgerald Kennedy: uno schiaffo fortissimo, uno shock planetario, una sorta di “fine dell’innocenza”.
Ma intanto la musica procedeva e un giovanissimo musicista, abbandonato il palcoscenico, aveva iniziato una brillante carriera come produttore discografico e geniale inventore di una nuova tecnica di registrazione: lui si chiamava Phil Spector e la sua creatura Wall of sound.
Il Muro del suono era stato pensato in particolare per rendere quanto più possibile perfetta la riproduzione di un disco in radio o nei juke-box. Spector sperimentò questa tecnica con una canzone, incisa da uno dei gruppi vocali femminili che come produttore seguiva in quegli anni: le Ronettes, fondate da Veronica Bennett, detta Ronnie, che vi aveva riunito mezza famiglia, dalla sorella alle cugine.
Per loro Phil Spector scrisse e produsse “Be my baby”: in breve, la canzone scalò ogni classifica, diventando addirittura una sorta di standard della musica pop che avrebbe influenzato altri musicisti e sarebbe stato oggetto di cover di molti artisti, fra i quali John Lennon.
E, anzi – a proposito di Beatles-, per spiegare meglio l’enorme popolarità che il brano e il gruppo che lo cantava avevano in quegli anni, basti pensare che le Ronettes furono le uniche artiste a salire sul palco con i Fab Four nel corso della loro tournée americana del 1966, l’ultima della loro strepitosa esistenza.
Due anni dopo, Ronnie da Bennett diventò Spector: si era sposata col suo produttore, oramai uno dei protagonisti della musica mondiale; da Phil divorzierà nel 1974.
Nel frattempo, però, anche le Ronettes si erano separate e allora Ronnie decise di proseguire come solista: la attendevano una nuova carriera, una nuova famiglia, una nuova e più serena esistenza.
Phil, invece, avrebbe avuto tutta un’altra vita, costellata di successi strepitosi e abissi profondissimi, culminati nel 2009 con la condanna a diciannove anni di carcere per omicidio di secondo grado della modella Lana Clarkson, trovata morta a casa sua.
Il 16 gennaio del 2021, Phil Spector, l’inventore del Wall of Sound, il geniale produttore compositore cui si devono grandissimi e immortali successi musicali, è morto per complicazioni da Covid 19 nell’ospedale dove era stato trasferito dal carcere californiano dove stava scontando la pena.
Per quelle inspiegabili coincidenze che a volte avvengono, il 12 gennaio scorso, quasi esattamente un anno dopo Phil, se ne è andata anche Ronnie.
Nel 1990, lei aveva pubblicato un’autobiografia in cui raccontava le violenze subite dall’ex- marito: come il suo maggior successo, l’autobiografia si intitolava “Be my baby”.
Inevitabilmente, verrebbe da dire.
Se volete farvi una idea più precisa, vi consiglio di godervi il video che mostra Ronnie Spector e le Ronettes nel 1965, al Moulin Rouge Club di Las Vegas : guardate loro, guardate le acconciature (a quella di Ronnie molti anni dopo si sarebbe ispirata per la sua Amy Winehouse), guardate i loro abiti, ascoltate Ronnie cantare dal vivo e godetevi il suo famoso “vibrato” naturale; e poi guardate la scenografia, guardate le ballerine di contorno e le coreografie; e guardate, guardate bene, anche il pubblico dell’epoca, composto da giovani uniti nell’amore per la musica ma rigidamente divisi per colore della pelle, con tanto di polizia schierata sulle gradinate a sorvegliarli.
La segregazione razziale era stata abolita per legge l’anno prima, ma la realtà era ancora assai diversa.
Guardate, guardate bene, guardate tutto, e farete uno straordinario viaggio indietro nel tempo, sessant’anni e infinite vite fa.
…E questa è la storia vera che ho voluto raccontarvi, la storia vera di una canzone pop e di quello che si nasconde dietro di essa; una piccola canzone, una innocua canzoncina orecchiabile, semplice semplice, da canticchiare sotto la doccia.
Del resto, avrebbe detto Enzo Jannacci, “Trattasi di canzonette” …
(Giancarla Paladini)