Francesco Alliata
“Il Mediterraneo era il mio regno. Memorie di un aristocratico siciliano”
Neri Pozza- Il cammello battriano
Pagine 352
Euro 18,00
La sua vita nasceva sotto i migliori auspici: l’appartenenza a una delle più antiche e illustri famiglie della nobiltà siciliana gli avrebbe per sempre garantito agi e privilegi negati ai più e lui, XIV Principe di Villafranca e del Sacro Romano Impero, Duca di Salaparuta, Primo Corriere Maggiore del Regno di Sicilia e Cavaliere di Malta (… e ci fermiamo qui, perché sono davvero troppi i suoi nomi e titoli nobiliari per ricordarli tutti), avrebbe potuto mollemente rifugiarsi nel ben noto “gattopardismo” che tanti altri ha ammaliato. Ma il suo casato gli imponeva anche il rispetto dei motti di famiglia: “Bisogna essere principi, piuttosto che apparirlo” e “Duriora decoxi- Ho masticato cose più dure”. Insomma, consapevolezza del proprio ruolo ma senza superbia e sempre lavorando moltissimo. Date queste premesse non stupisce che Francesco Alliata, educato da una madre forte e coltissima, abbia sempre trasformato ogni sua passione in operosità, condividendo i suoi moltissimi primati ed i numerosi successi con pochi e fidati amici.
Nato nel 1919 e scomparso il 1 luglio del 2015, lucidissimo e battagliero sino alla fine, Francesco Alliata ha fatto molte cose in novantacinque anni di vita, arrivando spesso a rischiare la sua incolumità: pioniere italiano del reportage di guerra, è stato poi il primo al mondo a compiere spericolate riprese subacquee, quindi produttore cinematografico con la Panària Film, nonchè fautore del lancio turistico delle amatissime isole Eolie e infine imprenditore, con la sua Sikelia, nel ramo alimentare dei sorbetti industriali. Vita facile, la sua? Niente affatto: potentissimi nemici hanno messo più di una volta in pericolo tutto ciò che gli apparteneva. Ma il Principe Alliata non si è mai arreso, animato, come scrive nella sua autobiografia in cui racconta, parallelamente alla sua, un secolo di vita del nostro Paese, dalla “voluttà del fare”. Il testimone è passato alla figlia, Vittoria Alliata di Villafranca, che ha accettato di parlarci de “Il Mediterraneo era il mio regno. Memorie di un aristocratico siciliano”, che Neri Pozza ha pubblicato nella collana “Il cammello battriano”. Un libro sorprendente.
Ecco l’intervista alla Principessa Vittoria Alliata, il cui sonoro originale trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
Canzone consigliata: “Amara terra mia”, Domenico Modugno.
Giancarla: Grazie per essere con noi. Come sta?
Principessa Vittoria Alliata: Bene, grazie, anche se c’è un grosso vuoto lasciato da papà; ma c’è la sensazione che lui abbia voluto consegnarci questo suo progetto di vita, questo suo sogno di un Mediterraneo “diverso” e quindi ci abbia proiettati tutti verso il futuro e non verso la nostalgia.
G.: E infatti questo è uno dei caratteri salienti della personalità di suo padre, emerge prepotente sin dalle primissime pagine. Dicevo che questo libro per me è stato sorprendente e spiego il perché: mi aspettavo, conoscendo a grandi linee la biografia del Principe, una storia molto interessante, con tanti retroscena… E invece ho trovato tanti libri, perché c’è una prima parte che potremmo addirittura definire quasi un romanzo di formazione e che riguarda l’infanzia del Principe Francesco Alliata, con la figura importantissima di sua madre (Vittoria San Martino: ndr). Che bambino è stato suo padre e che educazione ha ricevuto dalla madre?
V.A.: E’ stato sicuramente un bambino discolo, per niente viziato, cui è stato fatto capire che bisognava lavorare sodo se si voleva essere all’altezza del nome che si portava, e questo “lavorare sodo” significava alzarsi all’alba, anche a dieci anni, andare a verificare le campagne e poi di sera correggere le bozze di un libro di dodici volumi, scritti dal nonno in un linguaggio per lui incomprensibile: insomma, un addestramento quasi militare.
G.: …Perché c’era quella famosa frase: “Bisogna essere principi, piuttosto che apparirlo” che non è solo un aforisma ma, evidentemente, una “divisa”.
V.A.: Esatto: è il motto di Casa Valguarnera, una casata di origine spagnola (erano i re Goti dell’Aragona: fu l’esercito dei Valguarnera a salvare la Sicilia durante I Vespri dai re Angiò). Questo motto si è fuso con un altro, quello degli Alliata, famiglia entro la quale il primo ramo dei Valguarnera si è estinto (anche se è stata un’estinzione solamente del cognome: il ruolo, il pensiero e la progettualità dei Valguarnera sono arrivati vivissimi fino a noi): il motto è “Duriora decoxi, Ho digrignato cose più dure”. Quindi, bisogna prima digrignare le cose più dure, e così dimostrare di essere dei veri principi: si sono sommati due ideali molto difficili…! Mia nonna è stata un personaggio straordinario: salvatasi a diciotto anni dal terremoto di Messina (perché, mentre il palazzo crollava alle sue spalle, lei è rimasta su un balcone mentre ben trentasette membri della famiglia venivano spazzati via!) era studiosa, avvocato, reduce da studi a Friburgo, figlia di un grande storico (Francesco San Martino e De Spucches: ndr) che era però anche sindaco e che ha scritto la Storia della Sicilia in dodici volumi; questa madre messinese assolutamente integerrima, completamente ostile non soltanto a qualunque forma di collusione, comprensione, simpatia o anche semplicemente tolleranza per l’ambiente mafioso, ha aiutato i figli ad essere dei combattenti. Fra loro, il vero combattente è stato mio padre, che ha dimostrato lungo tutta la sua vita di avere imparato sin da piccolo questa lezione: dolorosa, perché doveva anche battere a macchina, attraversare luoghi difficili e oscuri del palazzo che gli facevano paura, seguire la mamma in tutte le sue peregrinazioni in giro per la Sicilia perché lei aveva eliminato e sostituito tutti gli amministratori per gestire direttamente le proprietà. Questo “apprendistato” si è trasformato nella voglia di una vita disciplinata, ma non banale.
G.: Assolutamente, anche perché a un certo punto, e lo scopriamo nella seconda parte, il libro diventa una sorta di romanzo storico e anche un libro di avventure: mi riferisco al periodo che riguarda una parte della storia italiana fondamentale e, ahimè, dolorosissima, il fascismo ma soprattutto la guerra. Suo padre, forse, avrebbe potuto starsene più tranquillo e invece si inventa addirittura un reparto per filmare le azioni di guerra, creando un progetto da zero.
V.A.: Certo: lui, ostile come era a ogni forma di violenza (non aveva mai cacciato, non si sentiva assolutamente in grado di usare delle armi e si è posto sempre il problema: che cosa farei se mi si parasse qualcuno davanti per spararmi?), pensò che la cosa più intelligente e anche più utile da fare fosse mettere al servizio della Nazione la sua capacità straordinaria di “riprendere”, il talento di fotografo e di cineoperatore che aveva sin da bambino. Fece creare un reparto speciale, che naturalmente non gli consentiva di vivere facilmente in quanto doveva filmare i bombardamenti e quindi, quando tutti scappavano dalle città per sfuggire alle bombe e si rifugiavano sottoterra, lui, assieme ai suoi uomini, entrava nelle città e filmava i bombardamenti. Fu tragico quello che filmò, fu devastante soprattutto quando le fortezze volanti rasero al suolo la città di Palermo (con grande dolore di personaggi come Tomasi di Lampedusa, che scrive affranto dalla distruzione del suo palazzo) e tanti straordinari edifici del Barocco, assolutamente e assurdamente distrutti dalle fortezze volanti americane che volevano creare il terrore nella popolazione: ecco, mio padre andava a filmare. E così ha filmato tutto, tutto quello che c’era di peggio: la distruzione del Duomo di Messina, per vent’anni restaurato dopo il terremoto e che fu nuovamente distrutto dalle bombe… L’unica cosa che non gli fu consentito di filmare fu lo sbarco (degli Alleati: ndr), perché il suo comandante non voleva che ci fosse traccia della disfatta: in realtà traccia di tutto ciò che mio padre ha filmato non è rimasta. Invano abbiamo cercato, dovunque: forse si troverà negli archivi cinematografici americani, che si saranno impadroniti di questa documentazione forse per non far vedere al mondo quanta devastazione avevano creato; mio padre consegnò tutto questo materiale al reparto e non si è ritrovato, mai più.
G.: Speriamo di recuperarlo, anche per una doverosa testimonianza nei confronti di tutti gli Italiani. “Speriamo”: … ecco, questa parola, “speranza”, forse percorre anche il libro. Ho l’impressione – e lo dimostra la fase successiva della vita di suo padre – che la speranza, i sogni, in suo padre diventassero dei progetti, perché, tra le altre cose, scopriamo che è stato il primo a compiere delle riprese in immersione, prima di Jaques Cousteau e addirittura “scoprendo” Folco Quilici.
V.A.: Assolutamente: Francesco Alliata nell’estate del ’46 decide di andare alle Isole Eolie con la sua “Arriflex”, che aveva ricomprato dopo la guerra, e di provare a girare sott’acqua, cosa che gli riesce splendidamente. Lui si era fabbricato due scafandri, uno dopo l’altro, per incapsulare la macchina da ripresa e la macchina fotografica: le sue furono in assoluto le prime riprese subacquee marine del mondo nella storia della cinematografia. Quello fu anche l’inizio per i ragazzi della Panària, mio padre con tre amici carissimi, di una avventura durata un decennio. Furono inventori di una quantità di cose, perché dopo l’invenzione delle riprese subacquee fecero anche la prima fiction sott’acqua. Nel film “Vulcano” ci sono scene di un inseguimento e di un omicidio sottomarino, girate all’interno di un relitto: mai prima era stata girata la scena di omicidio in un film sott’acqua. (Inventarono: ndr) anche la docu-fiction: per la prima volta una realtà documentaria straordinaria come quella delle Isole Eolie, con i loro vulcani, la loro “fisicità” tellurica e le loro storie umane, diventa protagonista di una fiction. Il tutto per una casa di produzione cinematografica singolare, che comincia con “Vulcano”, protagonista la Magnani, e prosegue con altri film, con la Magnani e con altri protagonisti, tutti incentrati su figure femminili straordinarie, che esaltano quello che in un certo senso è il “tipo” femminile del Mediterraneo: una donna forte che è anche capace di essere autonoma, di sopravvivere senza gli uomini, come le donne pescatrici delle Eolie che hanno volti incredibili, donne severe, arse dal sole, che lavorano nelle cave di pomice; la stessa Anna Magnani è una prostituta che alla fine uccide un personaggio che cerca di trascinare sua sorella nella stessa sventura sua. Sono film che sono stati considerati “sconvenienti” e boicottati fortemente dalla cinematografia cattolica, dalla censura cattolica, tanto che il libro racconta alcuni particolari straordinari di come il film “Vulcano” fu boicottato alla sua prima, di come fu sabotato, e non, come si pensava, da Roberto Rossellini che aveva girato in contemporanea un altro film a Stromboli con la sua nuova fidanzata, Ingrid Bergman, ma certamente da chi invece, probabilmente dell’entourage di Giulio Andreotti, aveva addirittura commissionato questo “Stromboli” perché si creasse una nuova forma di “neorealismo cattolico”, che potesse costruire una cultura destinata a incontrare tutta l’Italia del dopoguerra attraverso il cinema: una cosa che sappiamo essere tipica degli Stati Uniti, che con Hollywood hanno fatto politica. Francesco Alliata ha attraversato tutto ciò inconsapevole, come lui dice: loro non volevano fare né politica, né combriccole, non si sentivano né di destra né di sinistra, anche se lui, così come ha litigato con Rossellini, ha cacciato anche Luchino Visconti per la mancanza di serietà nei suoi confronti, visto che per un anno da regista di “La carrozza d’oro” non aveva prodotto nulla. Questi ragazzi erano “pericolosi”, andavano bloccati perché erano degli uomini liberi che, in una terra pericolosa come la Sicilia, che era strategica ed era stata destinata dopo lo sbarco ad essere occupata dalla criminalità organizzata, questi giovani che venivano da grandi famiglie, colti, internazionali, cosmopoliti, coraggiosi, andavano ostacolati; non si poteva creare la “Cinecittà di Sicilia”, non si poteva fare della Sicilia la sede della nuova Technicolor, l’unico stabilimento in Europa della Technicolor (cosa che mio padre aveva già concordato con gli Americani). Non si poteva, non si doveva: si doveva sottoporre l’Isola ad un giogo, a una occupazione definitiva, come vediamo oggi, tuttora.
G.: Qui il discorso diventa particolarmente serio e delicato. Saltiamo, per una questione soltanto di tempo, l’importante capitolo, dopo la Panària, della nuova vita imprenditoriale di suo padre che, per esaltare ancora una volta le tradizioni ed i prodotti della Sicilia, si apre all’industria alimentare, quella dei gelati: veniamo al tema scottante. Ecco perché dico che questo è un libro sorprendente: perché l’ultima parte è una puntuale, accorata denuncia di soprusi che suo padre dichiara di avere subito (la stessa Villa Valguarnera violata); addirittura, arrivando a novantaquattro anni a scrivere a Papa Francesco, dimostra di avere una forza interiore incredibile. Mi permetto di farle una domanda un po’ personale: naturalmente lascio a lei il rispondere o meno. Adesso, tutta questa eredità materiale e spirituale (perché lei è riuscita comunque anche a ricostituire una parte della proprietà che riguarda la Villa Valguarnera) che prospettiva le dà per il domani?… Perchè c’è questa Sicilia che è così amata, ma che non ha ricambiato sempre il vostro amore…
V.A.:… Beh diciamo che, ovviamente, abbiamo condiviso con mio padre questi ultimi trent’anni di battaglie e sicuramente ho rinunciato alla mia vita, perché un giorno gli ho sentito dire: “Io non posso essere il becchino di questa terra e di questa famiglia”. E allora, io che avevo la mia vita, la mia professione, il mio mondo (io sono scrittrice, vivevo all’estero, insegnavo, scrivevo, viaggiavo, fotografavo), ho sentito l’esigenza, la necessità di fare anch’io la mia parte per un motivo fondamentale: non soltanto per salvare le proprietà di famiglia, che erano state punitivamente tolte a noi perché eravamo diversi, eravamo dei ghibellini, ma perché ho pensato che questa terra avesse bisogno di esempi positivi. Erano stati uccisi in quel momento dei magistrati, e in contemporanea con il loro massacro stava avvenendo il massacro di tutto l’ideale che loro portavano avanti e che anche un mondo antico, storico ed intellettuale aveva portato avanti (parliamo anche di Sciascia e di altri personaggi che sono man mano scomparsi): mi sono sentita sulle spalle tutta questa responsabilità di dare un esempio, anche se modesto; io non faccio politica, però tornando e abbandonando la mia vita, la mia tranquilla vita, la professione e tutto il resto, e mettendola al servizio di questa terra come aveva fatto mio padre, ho pensato di “pagare il conto”… Un conto che mi sembrava giusto pagare “da viva”, nel senso che io, che sono stata in giro per il mondo accolta dovunque a braccia aperte in quanto principessa siciliana – quindi sicuramente una persona perbene, una persona seria in quanto appartenente a una antica storia – a questa terra che mi aveva dato la possibilità di essere accolta altrove, di capire altri mondi, a questa Sicilia così cosmopolita, così… così “globale” in tempi non sospetti, già mille anni fa, ecco, a questa Sicilia bisognava, in qualche modo, restituire qualcosa, anche se ero convinta che i nostri sforzi, come quelli di mio padre, non sarebbero andati a buon fine. Devo dire che, tutto sommato, qualcosa sono riuscita a fare…!
G.: …Come no!
V.A.: Ecco: con mio padre abbiamo dimostrato che si può “fare rete”, così come aveva fatto lui con i suoi amici scegliendo di collaborare per tutto, di lavorare insieme, di non pestarsi i piedi, di essere uniti in una battaglia culturale in cui avevano trascinato altre persone; avevano scoperto Folco Quilici, avevano scoperto Domenico Modugno, hanno lanciato giovani di talento, sono stati aperti ed estremamente positivi, non hanno tenuto per sé le loro scoperte. Questa è stata anche la caratteristica del modo di comportarsi di mio padre nelle successive fasi: cercare di rendere partecipi, condividere, “fare rete”. E questo credo che sia il motivo per cui alla fine qualcosa di importante, sia pure nella nostra piccolezza e impotenza (lui stesso dice “Gattopardi e anti-gattopardi, tutti eravamo destinati a fallire perché il progetto era molto più grande”), in quel piccolo, abbiamo potuto fare: forse proprio perché le persone hanno capito che devono “fare rete” con noi, altri che avevano problemi, che avevano voglia di riscatto, che volevano difendere la cultura, promuovere il cinema e “fare”, insomma, fare qualcosa in Sicilia, per questo credo che a migliaia, a decine di migliaia mi hanno scritto telegrammi e lettere quando lui è venuto a mancare, dicendo “Per noi, è un esempio straordinario”. Questo credo sia il risultato fondamentale che lui voleva e questa è la speranza proiettata nel domani. La testimonianza è il legato che lui ci lascia: ha voluto lavorare per dieci anni a questo testo affinchè rimanesse qualcosa di scritto che non era soltanto la storia della sua vita, quindi il passato, ma anche una proposta per il futuro.
G.: Sono parole tutte belle e importanti, delle quali la ringrazio. Stavo pensando, siccome lei ha citato Modugno, ad una canzone che Modugno ha rielaborato e che, sia pure rivolta idealmente a situazioni diverse, ha un verso che mi sembra perfetto (o, almeno, questa è la mia idea: mi dica lei) ed è “Amara terra mia”, quando Modugno canta…
V.A.:…Ah, è una canzone straordinaria, stra-or-di-na-ria, che mi sembra veramente esemplare! Mi piace tantissimo e anche a papà piaceva molto, molto…