Quando (era il 2009) venni a sapere che Joaquin Navarro-Valls aveva scritto “A passo d’uomo”, un libro in cui raccontava i “dietro le quinte” dei Grandi dell’Umanità che aveva incontrato anche e soprattutto in qualità di portavoce di Papa Giovanni Paolo II, decisi che assolutamente dovevo intervistarlo. La mia era una aspirazione per lo meno spericolata, se non addirittura velleitaria: sapevo perfettamente che Navarro-Valls era riservatissimo e del tutto disinteressato a fare mostra di sé, restìo a parlare con la stampa se non era effettivamente necessario (pur essendo un giornalista di alto livello) e incurante di raccogliere consensi, ma proprio per questo mi interessava. Seguendo l’istinto, cercai di contattarlo e, aiutata da una bravissima collega della Mondadori, aspettai: nel frattempo avevo letto il libro e questo rafforzava il mio desiderio di parlarne con lui.
Passarono alcune settimane, senza che nulla accadesse. Cominciavo a disperare, quando la collega mi disse che Navarro-Valls era disponibile, a patto di sapere con “chi” dovesse parlare; non gli interessavano il nome, la qualifica, il mezzo e nemmeno l’Editore per il quale si sarebbe fatta l’intervista: voleva conoscere la “persona”, non il giornalista, con cui avrebbe dialogato e anche perché gli veniva richiesta l’intervista. “Scrivi due righe e le giro alla sua segretaria”, mi disse ancora la collega. “E che scrivo?”, le chiesi. “Quello che ti senti”, fu la sua risposta.
Ero l’ultima ruota del carro, la mia non era una firma prestigiosa, famosa, potente, e per di più mi stavo giocando la faccia: ma avevo voluto io questa cosa e oramai non potevo più tirarmi indietro. Così, dopo due parole su chi ero, per chi lavoravo e di che cosa mi occupavo, gli raccontai con molta semplicità e sincerità che quello che più amavo del mio lavoro era la possibilità di incontrare la gente, di parlare con lei, di ascoltarla; gli scrissi che da tutti, personaggi famosi e perfetti sconosciuti, avevo imparato, che tutti mi avevano arricchito; gli confidai, pur temendo di sembrargli impertinente, che avevo colto lo stesso piacere nella sua decisione di rompere la consueta riservatezza, inevitabilmente raccontando anche di sé, dei suoi pensieri, delle emozioni vissute e dell’impegno pesantissimo di stare accanto ad un Pontefice che i fedeli chiamavano Santo quando era ancora in vita, in ossequio al dovere della testimonianza, cui ogni giornalista è tenuto.
Scrissi d’istinto, rilessi velocemente e inviai, rassegnata ad una nuova lunga attesa e, abbastanza di sicuro, a un diniego: la collega mi aveva avvertito. Invece, lo stesso pomeriggio venni chiamata dalla segretaria di Navarro-Valls e il giorno seguente l’intervista era registrata.
Inutile dire che fu bellissimo, istruttivo e formativo parlare con questo signore dai modi eleganti, che scherzava e dialogava con me con una naturalezza incantevole: ci siamo anche detti due cose, fuori onda, che però-permettetemi- terrò per me.
Comunque, confermato che non lo interessava la testata giornalistica di appartenenza, non so che cosa della mia lettera lo abbia convinto a parlarmi: so solo che la mia è stata una delle pochissime interviste da lui concesse in Italia (tre in tutto, mi pare) a proposito del suo libro, ma non è del mio scoop che mi vanto.
Mi piace pensare, invece, che abbia visto in me e nelle mie intenzioni rispetto e sincerità: ancora una volta, infatti, non era il “personaggio famoso” a incuriosirmi, ma l’Uomo e il Maestro.
Anzi, sono sicura che sia così.
Non a tutti Navarro-Valls piaceva, specie ai giornalisti che teneva a bada, specie a chi diffidava di lui per via dell’Opus Dei: da parte mia posso solo dire che per quanto mi ha regalato con la sua intervista lo ringrazio ancora una volta, oggi che non c’è più.