“La casa di Isabella”: chiacchierata con Edgarda Ferri

edgarda-ferri-librixia-con-giancarla-paladini“LA CASA DI ISABELLA”, EDGARDA FERRI

Tre Lune Edizioni 2016

Pagg 96, illustrato

€ 12,00

 

 

 

“LA CASA DI ISABELLA”, EDGARDA FERRI

Ho già avuto più volte, in passato, il piacere di leggere e proporvi le pagine di Edgarda Ferri, splendida scrittrice e giornalista di razza, che trova nel genere della biografia il suo habitat più congeniale: è però  bene spiegare che quando scrive una biografia Edgarda Ferri si tiene lontana anni luce dalla banale elencazione di fatti, luoghi e persone, tuttavia riuscendo (magicamente?) a racchiuderne in poche pagine moltissimi; non la muove alcuna noiosa saccenteria, anche se le meticolose ricerche sui suoi protagonisti, che la portano per mesi e mesi non solo a scartabellare archivi, leggere pubblicazioni di altri e, addirittura, a visitare i luoghi che furono teatro delle vite che sta per raccontare, le consentirebbero di tenere vere e proprie lezioni accademiche. No: assimila tutto quello che apprende dei suoi protagonisti, Edgarda Ferri, lo fa suo e infine, arricchito della sua inconfondibile capacità di narratrice, lo restituisce al lettore. Quello che ne risulta è un perfetto mix di vero e verosimile, di scientifico e poetico, di tutto il sublime e di tutto il miserrimo che la sua indagine sempre riesce a trovare nell’animo di straordinari protagonisti della storia, dell’arte e del costume di tutti i tempi.

E’ una affabulatrice, Edgarda Ferri? Sì, lo è, e nel senso più nobile della parola: perché incanta il lettore, lo porta con sé nella dimensione che lei ha scelto e nella quale mostra, come fosse un film, la verità che il suo talento di artista e il suo fiuto da giornalista hanno scovato, ora in un guanto bianco, ora in una ricetta rivoluzionaria, ora in una lettera miniata.

E’ bello lasciarsi abbracciare dai suoi racconti: bello e istruttivo.

Chi, non conoscendola ancora, volesse verificare le mie parole può farlo anche grazie alla più recente delle sue fatiche letterarie, “La casa di Isabella” (Tre Lune Edizioni): piccolo e prezioso volumetto illustrato, l’Autrice vi condensa (e mai verbo fu più azzeccato) la vita di una delle primedonne del Rinascimento, vissuta nella Città di Mantova, a sua volta sfolgorante protagonista di quell’età felice per le Arti e il Sapere, nonché città natale dell’Autrice.

La Isabella del titolo di cognome faceva Este e divenne Marchesa di Mantova a sedici anni, dopo le nozze con Francesco Gonzaga; alla sua corte convennero artisti straordinari, come Ludovico Ariosto, Mantegna, Raffaello Sanzio, Tiziano e Leonardo da Vinci, perchè lei, col passare degli anni, perseguiva una vera e propria ossessione per il Bello e per l’Antico e accumulava oggetti, stoffe, libri, opere d’arte, inventando acconciature e modelli di abiti, profumi e creme balsamiche.

“Bulimica di bellezza”, la definisce Edgarda Ferri: ma non è difficile immaginare, conoscendone la vita, che l’horror vacui di Isabella, avesse radici in un non improbabile grande vuoto interiore.

L’Autrice:

Edgarda Ferri, mantovana, vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista, laureata in giurisprudenza e appassionata di storia, ha all’attivo numerose biografie.

Esordisce nel 1963 con il romanzo Ci diedero dodici ore, vincitore del premio letterario “La Parrucca”. Diciassette anni dopo scrive Dov’era il padre, una serie di incontri con padri di noti e pericolosi terroristi (Rizzoli 1982, tre edizioni). Nel 1988 si aggiudica il premio “Walter Tobagi” e la medaglia d’oro del premio letterario “Maria Cristina” per il libro Il perdono e la memoria (Rizzoli). Nel 1990 passa alla Mondadori e scrive, per la collana “Le scie”, una serie di biografie di donne famose come Maria Teresa d’Austria, Giovanna la Pazza, Caterina da Siena, Letizia Bonaparte, Matilde di Canossa, Eloisa, Flavia Giulia Elena;  di condottieri e architetti come Vespasiano Gonzaga. Tornata ad occuparsi di storia contemporanea, ha raccolto le testimonianze degli ultimi dieci giorni di guerra a Milano ne L’alba che aspettavamo (Mondadori), e la storia sconosciuta di Orlando Orlandi Posti, uno studente romano ucciso alle Fosse Ardeatine, Uno dei tanti (Mondadori), ridotta in forma di dialogo e interpretata al Teatro Piccolo Eliseo di Roma da Fabrizio Gifuni e Piera Degli Esposti per la regia di Piero Maccarinelli. Nel 2012 ha pubblicato con la Casa Editrice Tre Lune Klimt, le donne, l’arte, gli amori, nel 2013 Il cuoco e i suoi re (Skirà) e nel 2014 “Guanti bianchi” (Skirà). A settembre del 2016 ha pubblicato, nuovamente con Tre Lune Edizioni, La casa di Isabella.

Ecco l’intervista a Edgarda Ferri, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina

Canzone consigliata: “Il Trionfo di bacco e Arianna” e “Vanità di vanità”, Angelo Branduardi

 

Giancarla: Come ci sei riuscita, Edgarda? Intendo dire: come sei riuscita a condensare in così poche pagine la ricchissima storia di Isabella?

Edgarda Ferri: …Non lo so… Però sapevo che questo libro doveva essere agile, portatile, comprensibile e, nello stesso tempo, molto preciso e concreto: così ho fatto una costruzione, come faccio sempre con i miei libri, che siano biografie o di altro genere. Io ho tutto nella mia testa e non faccio “scalette”, ma con i miei tantissimi appunti su carta costruisco quella che definisco una architettura. Quando ho finito di raccogliere tutto il materiale me lo rileggo e allora nasce l’incipit: dato l’incipit, come in un teorema, so come il libro dovrà finire e subito lo scrivo. Detesto le biografie che iniziano con “… Era nato il…” e, anche se l’esito di una biografia è fatale, finiscono con la morte del protagonista: cerco di evitarlo. Però ci sono sempre un episodio o una battuta che mi suggeriscono l’incipit, che per me è come il tetto di una casa: … lo so, dovrei partire dalle fondamenta, ma io voglio che ci sia qualcosa che si veda subito. Il resto arriva di conseguenza. Io la chiamo “architettura” di un libro…anzi, con una parola molto grossa, lo chiamo il mio teatrino, perché in effetti questo è, un teatrino: è tutto un andirivieni di personaggi, con degli intervalli, delle musiche… Dopo averli studiati, sono molto padrona dei miei protagonisti, mi è facile vederli: li vedo proprio muoversi nel loro tempo, nei loro luoghi, e alla fine mi trovo il lavoro fatto.

G.: Chi leggerà questo tuo libro capirà che stai facendo sembrare semplice ciò che semplice non è, anche perché, ancora una volta, hai scelto un personaggio femminile di cui forse si sa troppo poco, ma che ha fatto tantissimo: ci racconti la genesi di questo teatrino, come lo chiami tu?

E.F.: Beh, intanto io sono di origini mantovane e quindi vivo quasi immersa nel Rinascimento: e Isabella D’Este è il personaggio più ingombrante che ho trovato nella mia città. In realtà, secondo me di personaggi importanti in quel periodo a Mantova ce ne sono stati molti altri, e non solo della famiglia Gonzaga: anzi, avevo deciso di non scriverne mai, perché me la trovavo sempre intorno…! Avevo letto tante cose su di lei, a cominciare dagli scritti di Maria Bellonci (“Rinascimento privato”: n.d.r.), che con Isabella si era “fidanzata”: la Bellonci si era davvero immedesimata in Isabella, a Mantova si fermava mesi e mesi a studiarla, fino a tirare fuori di Isabella cose meravigliose. Quando questo avveniva io ero ancora una ragazza, e non dico che ne ridacchiavo, ma trovavo questa mitizzazione un po’ assurda: forse proprio per questo avevo tenuto lontana Isabella. Poi, ho trovato una “chiave” per raccontarla, la sua casa, anzi, le sue case, perchè gli appartamenti di Isabella sono due: sono entrambi bellissimi, soprattutto il secondo, quello meglio conservato. Quello che più mi ha colpito è la bulimia di bellezza di questa donna maniacale: lei voleva tutto. Non si può dire che fosse una donna colta, ma in base ad alcune testimonianze la immaginiamo curiosa, ambiziosissima, molto intraprendente, una presenzialista che voleva essere ovunque e essere sempre la prima, la più elegante, la più ammirata: sotto certi aspetti, è stata sicuramente la primadonna del Rinascimento. Io però ho cercato di capire la sua fame inesauribile di opere d’arte, dalla più grande al più piccolo cammeo, che continuamente comprava e il più delle volte non pagava, o si faceva prestare e non restituiva: per averle, scriveva a chiunque in continuazione, “tampinando” segretari e ambasciatori; era il terrore dei collezionisti romani, perché ogni tanto si precipitava a Roma e andava a visitare gli scavi per portarsi via o comprare prima degli altri i reperti antichi. Ho cercato di capire chi fosse questa donna, abbastanza inquietante, che aveva anche molte ombre, non solo dal punto di vista sentimentale ma anche nei rapporti con i figli: l’ho un po’ smitizzata, sia pure riconoscendo il suo valore. Chi ha il “coraggio” di leggere l’inventario dei suoi beni perde letteralmente la testa, tanto che mi chiedo dove mettesse tutti quei tesori, perché i suoi due appartamenti non erano enormi. Aveva tesori immensi, che non sono andati del tutto perduti ma sono in giro per il mondo: del resto, il destino dei Gonzaga è stato quello di salire in alto per poi precipitare, riducendosi a vendere tutto. Quello che ancora cerco di capire è se lei, attraverso questo collezionismo maniacale volesse passare alla Storia (e in effetti siamo ancora qui che ne parliamo, perché ha raccolto beni straordinari), oppure se, come tendo a credere, la sua “fame” di possedere beni materiali fosse soltanto un modo per colmare un vuoto affettivo, come in molte lettere lei ha rivelato.

G.: Una donna controversa, ma assolutamente affascinante. Io l’ho interpretata come una donna “moderna”, anche se non riesco a definire esattamente la sua “modernità”: tu sei d’accordo o pensi che, viceversa, Isabella sia stata perfettamente, anche se inconsapevolmente, una donna del suo tempo- il Rinascimento- e del suo rango?

E.F.: Innanzitutto, è stata la prima donna ad avere uno studiolo, che all’epoca veniva chiamato camerino: una piccola stanza in cui il Principe si chiudeva a studiare e riflettere, naturalmente circondato da cose belle. Questi studioli, che non esistevano prima del ‘500, appartenevano a grandi Principi (uno di essi era Federico di Montefeltro), ma nessuna donna prima di lei ne aveva posseduto uno: quindi Isabella ha compiuto un passo gigantesco. Basti pensare che suo marito Francesco, che a sua volta ha fatto cose magnifiche, lo studiolo non l’aveva: in questo senso, è stata modernissima. Fu poi molto moderna, per quel tempo, nei confronti dei figli: se ne distaccava, come all’epoca tutte le Principesse facevano, ma al tempo stesso tramava per sistemare nel miglior modo possibile le femmine e, soprattutto, i maschi. Per le figlie femmine, se erano belline trovava dei principi, se erano bruttine le mandava in convento: quindi è stata una madre, ma anche di una manager spregiudicata. Modernissima lo era anche nel campo della moda: oggi diremmo che è stata una stilista. Si disegnava i propri abiti e mandava la famosa Piavola de Franza (una specie di bambola-manichino: n.d.r.) al re di Francia, che voleva sapere come lei si vestisse; assemblava tessuti, che ordinava in lettere lunghissime e minute a Cipro o Gerusalemme, perché conosceva esattamente dove trovare sete, broccati e velluti. Aveva inventato la famosa capigliara, l’acconciatura a forma di ciambellone sulla testa, che vediamo nel ritratto che di lei ha fatto Tiziano: i “maligni” del tempo (a cominciare da l’Aretino, il suo più feroce avversario) dicevano che l’acconciatura servisse a nascondere il fatto che non avesse più capelli a causa delle tinture. In effetti, lei mandava a prendere tinture in Francia e poi prodotti per togliersi le stesse tinture: c’è una lettera molto buffa, in cui al suo segretario di Milano chiede come mai Ludovico il Moro un giorno sia tinto di nero e un altro di rosso, e come poter fare lo stesso. E poi escogitava anche trattamenti cosmetici: per esempio. si faceva fare su misura dei guanti di pelle di capretto, sottilissimi ma foderati di un unguento così che indossandoli le mani si mantenessero molto morbide. Pare che però fossero puzzolenti e così aveva fatto fare delle fiale, che si possono vedere fra gli oggetti che ancora oggi restano di lei, piene di essenze profumate che si legava ai polsi con una catenella. Non solo: dal famoso tipografo e libraio Aldo Manuzio si faceva stampare libri minuscoli, da tenere in tasca e dentro le maniche, molto gonfie come si usava allora (siamo intorno al 1520). Libri tascabili, insomma. Prediligeva l’antico, ma voleva anche possedere tutto quello che era novità e pur di possedere oggetti d’arte che non poteva avere, perché l’autore o il proprietario non li cedevano, ha anche accettato molti “falsi”, purché belli. Sì: era moderna, molto moderna. Una cosa mi è molto piaciuta e vorrei trasmettere: Isabella era una grande costruttrice di motti, tutti autobiografici, che poi venivano illustrati da bravi artisti e affrescati sulle pareti del suo appartamento, o miniati sulla sua carta da lettere. Uno di questi rappresentava un candeliere con un’unica candela e un motto in latino, che dice presspoco: “Anche se resta una luce sola, una luce sola può bastare”.

 

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