La minestra “povera” (questa è una storia -non solo gastronomica- vera)
Nelle giornate più grigie e fredde mia madre preparava la minestra “povera”: la consumavamo sempre per cena perché a casa nostra zuppe, brodi e minestre erano riservati alle serate dell’autunno e dell’inverno.
Il loro arrivo nel nostro menu domestico, insomma, significava che la bella stagione era definitivamente archiviata e anche a tavola bisognava farsene una ragione.
Avevo cominciato a chiamarla “povera” da bambina, perché si faceva con pochi e umili ingredienti, di recupero o quasi. Quando in casa rimanevano -che so?- una cipolla e una patata, e uno dei barattoli della passata di pomodoro che mia madre aveva preparato in estate era alla fine, lei metteva tutto insieme nella pentola: faceva soffriggere dolcemente la cipolla tagliata sottile-sottile, aggiungeva la patata a tocchetti (sempre mescolando perché non si attaccasse al fondo) e quando questa si era insaporita versava la conserva opportunamente diluita in acqua bollente; aggiustava di sale, portava a bollore e poi abbassava la fiamma e continuava a fuoco dolce.
Nel frattempo, io dovevo spezzare la pasta: essendo una minestra “povera”, che assemblava quello che c’era in fondo alla dispensa, serviva anche a riciclare gli avanzi dei vari formati, che mia madre selezionava e metteva in un telo; io lo chiudevo a fazzoletto e poi ci pigiavo i pugni sopra, divertendomi a sentirla scrocchiare con quel suono francamente un poco imbarazzante. Pigiavo, la pasta scrocchiava e noi due ridevamo, maliziosamente complici: era un lavoro che facevo volentieri e, anzi, fosse stato per me, avrei continuato il gioco fino a polverizzarla.
Dopo un quarto d’ora dal bollore, mia madre aggiungeva la pasta: l’amido delle patate ne rallentava la cottura, ma tanto non c’era fretta, perché in ogni caso doveva rimanere molto morbida, quasi disfatta e amalgamata col resto, fino a creare una specie di velluto rosso. Mancava ancora un po’ all’orario di cena quando cominciava a prepararla, ma la minestra “povera” aveva bisogno di tempo per cuocere come si deve e bisognava portarsi avanti.
Seduti attorno al tavolo, mia madre affondava il mestolo nella pentola e versava nei piatti la fumante e cremosa minestra con molta attenzione, perché era ustionante. Una abbondante manciata di grana fatta piovere sulla fondina e la cena era servita; non restava che soffiare sul cucchiaio per sorbirla senza danni.
Faccio spesso la minestra “povera”: la preparo nelle giornate più grigie e fredde e la consumo sempre per cena, perchè a casa mia zuppe, brodi e minestre sono riservati alle serate dell’autunno e dell’inverno, e il loro arrivo nel mio menu domestico significa che la bella stagione è definitivamente archiviata e anche a tavola bisogna farsene una ragione.
Affetto sottile-sottile una cipolla, aggiungo una patata tagliata a tocchetti, mescolo bene perché non si attacchi e poi verso la conserva: quella industriale, però, perché mia madre non c’è più e la sua conserva nemmeno. Dopo un quarto d’ora aggiungo la pasta: l’amido delle patate ne rallenta la cottura, ma tanto non c’è fretta, perché in ogni caso deve rimanere molto morbida, quasi disfatta e amalgamata col resto, fino a creare una specie di velluto rosso. Manca ancora un po’ all’orario di cena, ma la minestra “povera” ha bisogno di tempo per cuocere come si deve e io mi porto avanti.
Se invece ho fretta e nessun ritaglio di pasta la accompagno con tocchetti di pane passati appena appena sulla griglia caldissima, leggermente unta di olio: uso pane avanzato, naturalmente, pane raffermo, perché la lezione della minestra “povera” è che buttare il cibo è una bestemmia e c’è sempre del buono -molto buono- in quello che i più superficiali e capricciosi scartano come spazzatura.
E mentre annuso beata il profumo irresistibile che si sprigiona dalla pentola sono in un’altra cucina, che ha al muro le piastrelle a disegno geometrico anni ‘70 (che i miei genitori, confidando spericolatamente nel mio gusto, hanno fatto scegliere a me, che pure sono una bambina); mia madre è lì di spalle, intenta ai fornelli, il grembiule allacciato in vita, mentre io meticolosamente rompo nel tovagliolo la pasta di recupero; dal soggiorno, dove c’è mio padre, arriva in sottofondo la voce del televisore acceso che litiga con quella della radio che noi due stiamo ascoltando insieme (in silenzio, perché alla radio c’è sempre qualcosa di bello e interessante da ascoltare in silenzio).
La mia minestra “povera” adesso è pronta: la scodello con attenzione, la assaggio soddisfatta e penso che in realtà di “povero” non ha proprio nulla.
Penso pure che in fin dei conti mi basta poco per stare bene, perché ho imparato presto la sua lezione: buttare il cibo è una bestemmia e c’è sempre del buono, spesso molto buono, in quello che i più superficiali e capricciosi scartano come spazzatura; e penso anche che – sia detto senza fastidiosi moralismi- questo valga anche per le persone.
Ecco, Amici: io vi ho raccontato la ricetta della minestra “povera” e la sua lezione; adesso, provatela anche voi, se vi va, e poi fatemi sapere.
(Giancarla Paladini)