ROMANA PETRI, “La rappresentazione”
Mondadori, 2021
Pagg 408
€ 20,00
Il fortissimo legame fra Romana Petri e il Portogallo ritorna nel suo nuovo romanzo, “La rappresentazione” (Mondadori), terzo capitolo della storia dei Dos Santos che, a buona ragione, l’Autrice definisce una famiglia extra- ordinaria: infatti i rapporti fra i suoi componenti sono tutt’altro che “ordinari”, e purtroppo non in senso positivo, per quanto loro si ostinino a comportarsi come una famiglia “normale”; vorrebbero rappresentarla a beneficio di chi li guarda per farsi credere migliori di quanto non siano, insomma, ma la verità è di tutt’altra natura.
Già in questa finzione si giustifica il titolo del romanzo, che però ci racconta anche della crisi di uno dei protagonisti, Vasco, che pure nel precedente “Pranzi di famiglia” sembrava essere riuscito a recidere i legami malati con il padre e le sorelle, specie quelli con la gemella Joana.
Sposatosi con una più che singolare pittrice italiana, Luciana Albertini, lasciate Lisbona e la sua famiglia così incapace di amore per trasferirsi a Roma, in casa della moglie, Vasco va in crisi quando lei viene acclamata anche a livello internazionale. Eppure proprio la pittura li aveva fatti incontrare: Vasco, infatti, nutre da sempre velleitarie ambizioni di gallerista pur dipendendo economicamente dal padre Tiago, superbo e ricco ex ministro e professionista di successo, presso il quale periodicamente elemosina denaro e sovvenzioni che il genitore sadicamente centellina e ogni volta gli rinfaccia.
Proprio la mostra da lui organizzata a Lisbona, nella quale i ritratti geniali della Albertini raccontavano impietosamente la verità sui Dos Santos, è stata la causa scatenante di una rabbiosa rottura con la sua famiglia; fa eccezione la sorella Rita, l’unica ad essersi davvero liberata da quell’asfissiante pantano familiare, sia pure a costo di molta sofferenza.
Scoprirà molto presto, il lettore, quanto siano capitali i vizi della maggior parte dei protagonisti, perché anche ne “La rappresentazione” Romana Petri si conferma maestra nella descrizione, chirurgica e al tempo stesso delicata, delle zone più oscure e recondite dell’animo umano, concedendosi e regalandoci però pure momenti di grande leggerezza grazie ai felicissimi personaggi di Luciana Albertini e del suo cane immortale, Barabba: i due solo parzialmente sono frutto della fantasia e – parola dell’Autrice – presto li ritroveremo in nuove pagine.
Che ne sarà, quindi, dei Dos Santos? Si riuniranno? Accetteranno la blasfema Albertini? Vasco e il suo matrimonio reggeranno? E la pittrice italiana che fine farà?
Per saperlo, non rimane che leggere questo bel romanzo che, a poche settimane della sua pubblicazione, ha già ricevuto richieste per traduzioni all’estero: e scusate se è poco…
L’Autore
ROMANA PETRI
Traduttrice, editrice e critico letterario, è considerata una delle maggiori scrittrici italiane.
È tradotta in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo.
Nel 2004 ha fondato la casa editrice Cavallo Di Ferro, specializzata nella promozione di autori lusofoni e attiva sino al 2014.
Ha ottenuto numerosi premi come il Premio Mondello, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes.
È stata due volte finalista al Premio Strega.
Tra le sue opere: Alle Case venie, Ovunque io sia, Tutta la vita, Figli dello stesso padre (2013, finalista al premio Strega), Giorni di spasimato amore, Le serenate del Ciclone (Premio SuperMondello 2016), Il mio cane del Klondike, Pranzi di famiglia, Figlio del lupo, Cuore di furia (attualmente nella cinquina finalista del Premio letterario Chianti Narrativa 2021).
La rappresentazione è il suo nuovo romanzo.
Ecco l’intervista a Romana Petri, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
Canzone consigliata (dalla Albertini): “Go down Moses”, Louis Armstrong.
Giancarla: Come ho già fatto in passato, dichiaro la mia grande gioia nel ritrovare Romana Petri! Grazie!
Romana Petri: Per me è sempre un gran piacere ritornare fra di voi e, soprattutto, essere intervistata da te!
G.: Grazie: questa è una tua gentilezza, che mi tengo con grande amore. Veniamo al tuo nuovo romanzo, al tuo nuovo e bel romanzo “La rappresentazione”. Se sei d’accordo, non mi soffermerei troppo sulla trama, che ovviamente scopriranno i lettori: possiamo però dire che siamo di nuovo a Lisbona e ritroviamo la famiglia Dos Santos, divisa drammaticamente da una mostra di pittura della “mitica” Albertini che scoperchia una specie di vaso di Pandora; vedremo come procederà questa divisione. Partiamo innanzitutto dal titolo, perché tu sei una scrittrice che è assolutamente padrona di ogni sfumatura della parola e quindi, se appunto del titolo parliamo, la parola diventa ancora più importante. “La rappresentazione” non è la verità e nemmeno la realtà: è quello che a noi fa più comodo far credere ed è ciò che soprattutto ama questa famiglia portoghese. E’ così?
R.P.: Sì. Io, con questo romanzo vi invito a teatro, su un palcoscenico. Questa famiglia portoghese è molto particolare: più che straordinaria io la definirei extra-ordinaria. E’ una famiglia glaciale, fatta di anoressia sentimentale, dove tutto quello che è manifestazione di emozione viene considerato una debolezza: ha una forte difficoltà di comunicazione, non c’è la capacità di esternare un sentimento. Quello che però conta è la forma: incontrarsi, vedersi, ma senza parlare di nulla; rappresentare una famiglia anche se la famiglia, in realtà, non esiste. Dall’altra parte c’è anche la rappresentazione dell’Arte, in questo romanzo importantissima: l’Arte pittorica della straordinaria pittrice italiana Luciana Albertini (ci tengo sempre a dire che l’Albertini esiste davvero, la conosco da trent’anni ed è veramente una grande, straordinaria pittrice), che – essendo una Artista a tutto tondo – nello sconvolgimento della famiglia di suo marito Vasco riesce comunque, attraverso l’Arte e attraverso la rappresentazione di quello che lei mette nei quadri, a diventare una installazione di se stessa; l’assorbimento della rappresentazione artistica da parte di lei, il suo calore nei confronti dell’Arte, è quello che la salva da tutta la glacialità che la circonda.
Noi siamo un po’ quello che realmente siamo, siamo moltissimo come ci vedono gli altri e rimaniamo sconvolti quando (come accade alla famiglia portoghese quando vede il ritratto che la Albertini ha fatto di ognuno di loro) ci vediamo interpretati in modo diverso da come per tutta la vita si è creduto di essere stati visti dagli altri; i Dos Santos restano sconvolti da come li vede l’Albertini, cioè in modo grottesco e irriverente, non formale, diverso da come si erano abituati a vedersi e a mostrarsi. Il romanzo, quindi, è tutto una rappresentazione: anche il sentimento amoroso.
G.: Infatti in questa famiglia tutti i gesti che sembrerebbero atti d’amore in realtà sono causa di dolore: per esempio, tornando ai due libri precedenti, gli interventi chirurgici per dare a Rita una parvenza di normalità, pur dettati dall’amore si traducono in grande dolore per lei. Tu hai definito i Dos Santos una famiglia extra- ordinaria: giustissimo, ovviamente, io invece l’ho definita disfunzionale…
R.P.: Sì, certo, anche.
G.: Che cosa ti attira di questa famiglia, in certe sue manifestazioni così atroce ?
R.P.: Atroce, sì… In verità, in tutti i miei romanzi scrivo molto di “famiglia”. Come dice la psicoterapeuta Laura Pigozzi, “troppa famiglia fa male” (è il titolo di un suo bellissimo saggio) e sono convinta che tutti i nostri mali nascono da zero ai dieci anni; in questo lasso ti tempo si forma tutto, è l’età in cui la famiglia la fa da padrona su ogni essere umano: naturalmente ci sono dei traumi superabili, ci sono famiglie accettabili. Questa è una famiglia del tutto diversa da quella che ho avuto e io sono molto attratta dal diverso, da ciò che non mi è mai appartenuto: mi piace, sono curiosa, scruto. Ho conosciuto tante persone che hanno avuto delle famiglie davvero molto particolari, molto “atroci”, come dici tu, e a loro mi sono ispirata per questa famiglia. Io conosco bene il Portogallo: questa magari non è la classica famiglia portoghese, ma non è nemmeno molto distante dalla realtà. Il Portogallo è un Paese bellissimo, che ha profumi e colori molto fortemente mediterranei, ma è abitato da una popolazione che non è per nulla mediterranea, anzi, è piuttosto nordica, di stampo britannico, e quindi è strano per un italiano che va per la prima volta in Portogallo e pensa di trovare qualcosa di simile alla confinante Spagna, l’altra parte della penisola iberica, scoprire invece un mondo completamente diverso; per un turismo di pochi giorni certamente li si trova molto gentili, garbati, però sono freddi, chiusi. (Quello portoghese) E’ un mondo difficilissimo, abbastanza impenetrabile, ma molto affascinante: come tutti i popoli che confinano con il mare, i loro occhi possono avere qualsiasi colore (verdi, viola, blu, neri), ma sono comunque occhi… atlantici…
G.: Così parla Romana Petri; immaginate come scrive, quindi, una persona che parla così meravigliosamente… Che cosa significa “Dos Santos”?
R.P.: “Dei Santi”.
G.: Ecco. Allora, a proposito di rappresentazione ho fatto un gioco: non é certo originalissimo, ma te lo propongo lo stesso e tu mi dirai che ne pensi. Eccezion fatta per la Albertini e, in parte, anche per Rita, ho pensato che in questo romanzo (anzi, forse mai come in questo romanzo) attraverso i suoi personaggi tu ci abbia rappresentato i sette vizi capitali.
R.P.: … Davvero?
G.: Sì: e lo dici chiaramente quando paragoni Vasco all’accidia; il gioco è quindi quello di abbinare ogni personaggio ad un peccato. Vasco è l’accidia, ma anche l’invidia…
R.P.: Sì, atrocemente.
G.: Joana è l’ira, la rabbia…
R.P.: Sì.
G.: Tiago è la superbia, ma anche l’avarizia…
R.P.: Sì, perché è avaro nel dare anche se dà abbastanza, perché dà con il contagocce e, soprattutto, vuole essere molto ringraziato.
G.: Nuno, il genero, in un certo senso è la lussuria.
R.P.: Certo.
G.: E poi c’è “la gola” e su questa mi soffermerei, perché tu hai detto che questa è una famiglia sentimentalmente anoressica. Io avevo letto il precedente “Pranzi di famiglia” con vicino Wikipedia, perché riportavi tantissime ricette e facevi venire un incredibile desiderio di provarle; in questo, invece, tutti i personaggi, ciascuno a suo modo (in maniera diversa l’Albertini), hanno un pessimo rapporto con l’alimentarsi, quasi fosse un riflesso di quella che tu hai giustamente definito anoressia affettiva; hanno un brutto rapporto con il cibo, insomma, e anche quello portoghese qua viene un po’ maltrattato. Vado troppo oltre?
R.P.: No, no… Forse non me ne sono neanche resa conto, però sicuramente in questo romanzo c’è molto meno tempo per sedersi a tavola e più tempo per complottare: questo è il romanzo del complotto. C’è un complotto molto forte ordito dal vecchio padre Tiago, che l’Albertini chiama “il Dinosauro”, e dalla gemella di Vasco, Joana: in realtà, piuttosto che il cibo qui si mangiano gli altri, si cerca di divorare il nemico.
G.: …Lo sbranano proprio…
R.P.: Esattamente. E poi in portoghese c’è il doppio significato del verbo “mangiare”: comer ha anche il significato sessuale di “far l’amore con qualcuno” e per dire di avere avuto una storia si dice “Ho mangiato quella persona”. E’ anche brutta l’immagine che ci sia qualcosa di divorante: i Dos Santos sono un po’ squali, l’Albertini si trova circondata da squali. In questo romanzo c’è anche la difficoltà che spesso hanno gli uomini quando stanno accanto a donne di grande successo: quando Vasco e la Albertini si incontrano lei ha solo una piccola rendita, dipinge, fa qualcosa, ma praticamente non è ancora nessuno. Vasco all’inizio della loro storia era sì pigro, ma in lui non si notava ancora l’invidia: in questo romanzo l’Albertini diventa una pittrice internazionale che fa quadri “in movimento” e dipinge una Santa importantissima, Santa Teresa d’Avila, con la quale entra in un commercio così intimo da chiamarla “Teresina” invece che con il suo nome; si innamora di questo personaggio, diventa questo personaggio. La Albertini ha una visione dell’Arte molto flaubertiana: non sono i suoi quadri a doverle somigliare, deve essere lei a immedesimarsi nei i suoi quadri per dipingere le estasi di Santa Teresa, che non dico come sono perché sono tutte pazze…
G.: …E divertentissime…
R.P.: Sì, questo è un libro molto amaro ma anche molto divertente perché c’è il lato onirico, fantastico e pazzo di questa donna e del suo cane Barabba: come sai, io i cani li metto ovunque. Ecco, c’è intorno a lei una grande glacialità e in più si ritrova accanto un uomo che fino a un momento prima aveva dato un’altra rappresentazione di se stesso e che improvvisamente si trasforma. E lei gli domanda: “Ma allora perché facevi questo, perché facevi quest’altro?” e lui risponde: “E’ stata una rappresentazione”. Molto spesso, nella vita, noi rappresentiamo qualcosa, anche per qualcuno: prima si rappresenta tutto e poi improvvisamente più nulla. In realtà, i rapporti amorosi sono i più imprevedibili, prima l’altro è tutto e poi nulla, c’è una sorta di rappresentazione anche nell’amore. In questo senso, pensando alla storia fra Vasco e Rita, io – essendo anche una insegnante di letteratura francese – ho pensato molto a Stendhal, che vede l’amore come una cristallizzazione: ci innamoriamo di chi non conosciamo, ma sicuramente lasciamo persone che conosciamo bene; è quasi più autentico il lasciare che l’innamoramento, perché l’innamoramento è una incognita bellissima, innamorarsi è forse una delle esperienze più belle che si possano vivere ma, a meno che non ci si innamori di un vecchio amico, è un salto nel buio, un gettarsi fra le braccia di uno sconosciuto. E’ bellissimo, ma poi cristallizziamo lo “sconosciuto” come fosse un bell’albero di Natale che addobbiamo, ma poi a mano a mano nella vita i rapporti cambiano: quando cominciano a finire – e noi non ce ne accorgiamo mai – è perché stiamo togliendo un addobbo dietro l’altro; l’albero di Natale alla fine delle Feste si è un po’ rinsecchito, vengono tolte tutte le bellurie e lì finisce un amore… però ne ricomincia un altro.
G.: Fra l’altro, il messaggio che lanci nemmeno troppo trasversalmente visto il successo di Luciana Albertini (“Luciana”, lo abbiamo già detto, si può intendere anche come “luminosa”, “portatrice di luce”) che è una artista che non rappresenta la realtà ma, come hai detto, la vive, significa che alla gente la Verità arriva.
R.P.: … Anche perché la Verità è sempre dentro di noi, è come una voce, è come una musica, come diceva Saint-Exupery: la Verità è una musica e quando la senti cantare dentro di te, anche se non sai afferrarla pienamente, comunque la senti. La Albertini vive la Verità, la vede e la sente, dipinge col sangue e con le lacrime!
G.: La Albertini, lo hai già anticipato, tornerà.
R.P.: Ma certo: la Albertini esiste e tornerà. Questa birbona tornerà sicuramente nel mio prossimo romanzo e non è escluso che di libri invece di uno possano essercene due…
G.: A questo proposito, ho una domanda. Premesso che non do all’aggettivo seriale una connotazione implicitamente negativa, tu non sei una scrittrice seriale: invece, con questa che oramai possiamo definire trilogia e magari con la prossima sulla Albertini è come se tu stessi trovando uno spazio nuovo alla tua narrativa; non la serialità, magari, ma un allargamento, un bisogno di altre pagine per raccontare queste storie…
R.P.: Sì, anche se in realtà questi sono tutti libri a sé stanti, collegabili ma slegabili. Le grandi saghe ti lasciano a metà di una storia e poi la narrazione ricomincia da lì, dove tutto era terminato: questi invece sono libri che iniziano e finiscono, perché a me piace molto che il romanzo sia comunque un “a sé” … Poi, certo, si diventa anche un po’ “dipendenti”: io sono stata un po’ dipendente dalla famiglia Dos Santos e sono diventata molto dipendente dalla Albertini e dell’eterno cane Barabba.
Anzi, questo lo voglio dire: quando ho cominciato a scrivere di questa famiglia ho chiamato la Albertini, quella vera (che comunque è sufficientemente pazza: certo, non come la descrivo io, perché quando si parla dell’estremo bisogna sempre estremizzarlo), per dirle che stavo scrivendo un libro su una famiglia terribile:
“Ti posso buttare lì dentro, come Commedia dell’Arte italiana, così potrai darle luce, vita, calore umano?”.
Lei rispose: “Sì, sì, non ti preoccupare, poi se vorrai me lo farai leggere (perché lei è “pazza” e non gliene importa nulla). …Però… Tu pensi di scrivere anche di Barabba?”.
“Certo: come potrei scrivere di te senza scrivere di Barabba? Io ti ho conosciuta che avevi Barabba!”.
“Benissimo: allora fai quel che vuoi, ma non farmelo mai morire, perché se dovessi vedermi un’altra volta morire Barabba io non ce la farei…”.
Così è nato il mito dell’eterno cane Barabba, perché Barabba non morirà mai: questo lo posso dire!
G.: Che meraviglia! …Anche perché, carissima Romana, lei si chiama Luciana (cioè legata alla “luce”), ma forse è anche “figlia delle stelle” … e su questo ci fermiamo!
R.P.: Su questo ci fermiamo perché in realtà ci credo quasi di più io dei miei lettori!
COSI SENZA AVER LETTO NULLA MI VIENE IN MENTE PIRANDELLO…..CHE VOLA IN ALTO. QUI SEMBRA CI SIANO LE RICADUTE IN FAMIGLIA DELLA SUA FILOSOFIA.