“Lascio che l”ombra” , Paola Baratto, Manni Editore, 2019
pagg 128
€ 14,00
Prendete un mistero da risolvere (per esempio: che fine ha fatto Aris Dal Pozzo, famoso ed apprezzatissimo docente di Antropologia e Sociologia, oltre che autore di numerose pubblicazioni?); aggiungete una giovane scrittrice, che non riesce a fare della scrittura la sua fonte di sostentamento, ma è un tipo in gamba ed è decisa a concludere la ricerca del professore, a suo avviso troppo frettolosamente archiviata; rifinite con l’amore per antichi testi alchemici e la Cultura, eliminate dal racconto tutto ciò che è superfluo ed otterrete magicamente il romanzo “Lascio che l’ombra”, la più recente fatica letteraria della scrittrice e giornalista bresciana Paola Baratto.
Ma… è un mistery ? Un noir? O che altro?
Vediamo insieme.
Giulia fa la scrittrice: cioè, scrive da anni, ma il successo (ovvero la condizione che le permetterebbe di vivere del suo talento) non arriva; così si arrangia per sbarcare il lunario ma, per quanto sia una ragazza tenace, sta seriamente pensando se invece non sia il caso di accantonare i suoi sogni di gloria.
In questo momento di crisi esistenziale, decide di rifugiarsi in un luogo che le ricorda i momenti felici vissuti nella grande casa di famiglia, fuori città. Lì accanto abitava Aris Dal Pozzo, illustre docente di Antropologia e Sociologia e autore di numerose pubblicazioni, noto anche per alcune apparizioni televisive, misteriosamente scomparso da tre anni. Le ipotesi sollevate, indagate anche da un famoso programma specializzato in sparizioni di persone, e le ricerche effettuate non avevano dato alcun esito: anzi, l’oblìo era presto calato sulla sua sorte. Giulia, però, ora che suo malgrado ha molto tempo a disposizione, vuole venire a capo della questione e capire che fine abbia fatto quell’intellettuale famoso, eppure frettolosamente dimenticato anche dalla maggior parte delle persone che lo avevano conosciuto.
Affiancata dal professor Ottavio Console, amico dello scomparso e originale figura di anziano letterato, Giulia si improvvisa detective: riuscirà nel suo intento? E che cosa c’entrano con la scomparsa di Dal Pozzo antichi testi che parlano di alchimia ?
Taccio, ovviamente, il finale del libro: mi limito ad anticiparvi che è sorprendente.
Dunque, tornando alle domande iniziali, pare proprio che sì, Paola Baratto si sia confrontata con un genere oggi particolarmente diffuso: ma possibile che l’Autrice, nota per essere (come Giulia, il professor Ottavio Console e lo stesso Aris Dal Pozzo) tutt’altro che omologabile e omologata, alla fine abbia ceduto? Certo che no: e infatti, sotto (ma nemmeno troppo) il mistero da dipanare, si cela la vera domanda che Paola Baratto si e ci pone: che fine ha fatto, oggi, l’intellettuale? Ha un suo ruolo nella società e, se sì, quale? Addirittura: ha ancora senso parlare di intellettuali?
Ulteriore prova del lucido talento narrativo di Paola Baratto, “Lascio che l’ombra” è, alla fine, un romanzo che ragiona di antropologia e sociologia, di letteratura e filosofia, e lo fa con lo stile che caratterizza la scrittura dell’Autrice: svelto, preciso, senza inutili circonvoluzioni, perfetto nella descrizione rapida e chiarissima dei paesaggi che incorniciano i personaggi e abitano nei loro animi.
L’AUTORE
Paola Baratto nasce a Brescia, in una famiglia con radici in più regioni d’Italia.
All’inizio degli anni Ottanta comincia a scrivere poesie. Il suo primo romanzo è “La cruna del Lago – Tír na n Og” (Ermione Editore, 1994), seguito nel ’98 da “Finisterre” (Zanetti Editore), nel 2000 da “Di carta e di luce” (Zanetti Editore); nel 2005 pubblica il romanzo “Solo pioggia e jazz”, nel 2007 “Carne della mia carne”(Manni Editore), nel 2010 “Saluti dall’esilio” (Manni Editore) e nel 2014 la raccolta di racconti “Giardini d’inverno” (Manni Editore): dal libro viene tratto uno spettacolo teatrale, per la regia di Sara Poli; nel 2016 l’editore Manni pubblica “Tra nevi ingenue”, una nuova raccolta di dodici racconti intervallati da cinque “gouache”.
Nel giugno 2019 Paola Baratto torna al romanzo con “Lascio che l’ombra” (Manni Editore) che, tra sfumature noir e testi di alchimisti del Cinquecento, riflette sulla progressiva perdita di visibilità e ruolo della figura dell’intellettuale.
Ecco l’intervista a Paola Baratto, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
Canzone consigliata: “Sparire”, I Cani.
Giancarla: Sono molto felice di ritrovare Paola Baratto, non solo perché parleremo di un suo nuovo libro, ma anche perché “Lascio che l’ombra” non solo è un romanzo, ma un romanzo che ha qualcosa del giallo (o di qualsiasi altro colore tu voglia vestire il mistero, Paola). Essendo la trama delicata da raccontare senza svelarne troppo, lascio a te questo compito.
Paola Baratto: Sì, sono tornata al romanzo: dopo due raccolte di racconti, ho deciso di tornare al… “primo amore”. Lo si potrebbe definire un noir: non è un giallo vero e proprio. Oggi si fa molta confusione fra noir e giallo: io lo concepisco alla francese, con atmosfere nelle quali c’è un mistero da dipanare. Il mistero in questione è la scomparsa improvvisa di Aris Dal Pozzo, intellettuale, antropologo, scrittore, del quale si perdono le tracce. Viene segnalato anche a “Chi l’ha visto”. Dopo tre anni di inutili ricerche, nel borgo dove viveva giunge una sua giovane amica, a sua volta scrittrice, la cui casa di famiglia confina con quella del professore sparito nel nulla. Giulia è convinta che qualcosa, nelle indagini, sia stato trascurato; soprattutto, è guidata da un’idea abbastanza sconcertante sulla vera causa della scomparsa. Quindi torna in questo antico borgo della Pianura Padana fra Veneto e Lombardia per condurre la sua piccola indagine personale, avvicinando i vecchi amici dei suoi familiari e di Aris Dal Pozzo: solo uno, Ottavio Console, ex preside dell’istituto magistrale della cittadina, le darà corda e, anche se un po’ recalcitrante, appoggerà la sua teoria “folle” sulla scomparsa di Aris.
G.: Giulia, la protagonista, è una scrittrice; Aris Dal Pozzo è antropologo e scrittore: non sono capitati casualmente questi due professionisti, l’una della scrittura, l’altro della ricerca…
P.B.: Diciamo che è stato abbastanza facile, rispetto agli altri miei romanzi, penetrare nella psicologia e nelle vicende di entrambi, perché qui ho attinto alla mia esperienza personale, mentre negli altri romanzi il mio atteggiamento era più oggettivante rispetto ai personaggi, c’era più distacco. Qui li ho visti un po’ più dall’interno e questo ha facilitato le cose.
G.: Comunque, questo è un libro di profonda riflessione filosofica, tanto che sembra che tu abbia vestito di noir un’indagine di tutt’altra natura…
P.B.: Sì. La domanda: “Dove sono finiti gli intellettuali?” aleggia fra le pagine. E’ una domanda che ci poniamo in questi anni e il romanzo, in effetti, si presta ad una interpretazione metaforica della scomparsa degli intellettuali e, soprattutto, della perdita di ruolo che essi hanno: spesso vengono derisi, emarginati, quasi infastidisce l’idea che qualcuno ci spieghi la complessità delle cose. Questo è stato certamente il “motore” del romanzo, ma mi piaceva anche l’idea di scrivere un noir. Ovviamente il libro non è un saggio, non vuole essere esaustivo rispetto all’argomento: io pongo delle suggestioni, degli interrogativi sulla scomparsa della figura del Maestro, cioè di chi ci spiega le cose.
G.: Il problema del ruolo dell’intellettuale nella società negli anni ’70 era molto dibattuto, anche fra i più giovani. La cultura (e, prima ancora, la conoscenza) erano considerati fondamentali per accedere non solo ad un piano superiore di ragionamento, ma anche di libertà personale: forse oggi l’intellettuale non ha un ruolo perché la sua è una figura impegnativa.
P.B.: Sì. E’ sempre accaduto, ci sono stati periodi storici in cui l’intellettuale veniva deriso. Oggi si registra uno svilirsi di questa figura, ma i motivi, man mano sottolineati nel romanzo, sono diversi. A volte è colpa degli stessi intellettuali: ce ne sono molti e magari hanno molto da dire, ma esiste anche uno spietato narcisismo e assecondare questa vanità a volte li porta a diventare i replicanti di se stessi… Però mi domando se la gente sia davvero interessata ad ascoltare: infatti Giulia, che fa domande sul dove possa essere finito Aris, spesso si trova davanti persone che, più che di lui, hanno voglia di parlare di sé, di dire la loro, che hanno fame di protagonismo. Forse oggi le persone vogliono essere protagoniste, più che ascoltare qualcuno che sa qualcosa in più: anzi, a volte si ha l’impressione che quelli che sanno infastidiscano. Naturalmente, non tutti gli intellettuali sono così; per esempio Claudio Magris, che leggo ed ascolto sempre molto volentieri le rare volte in cui viene intervistato, non ha i requisiti adatti allo spettacolo televisivo. Se un personaggio della sua caratura volesse fare un discorso serio, compiuto, non rientrerebbe nei tempi imposti dalla televisione: la gente si annoierebbe e cambierebbe canale, esattamente come nel libro succede con Aris Dal Pozzo.
G.: Ancora una volta, sono bellissime le tue descrizioni degli ambienti, dei luoghi; ancora una volta, il paesaggio diventa a tutti gli effetti un comprimario (se non, addirittura, un protagonista), non soltanto il fondale contro cui si staglia l’azione…
P.B.: In effetti è da lì che parto sempre, dal luogo, dall’ambientazione, anche se poi non mi dilungo mai in una descrittiva meticolosa del paesaggio: mi piace affidarmi a qualche pennellata che soprattutto riesca a catturare il carattere del luogo, che è fatto dall’imponderabile, spesso anche poetico, dato dalle condizioni climatiche di una regione, dalla qualità della luce, dai rumori, dai profumi, dalle memorie che lì si sono stratificate, dagli echi… Sono tutti elementi che creano quella particolare atmosfera che può anche influenzare lo stato d’animo dei personaggi: per questo devo averla chiara prima di mettermi a scrivere. Se non l’ho acquisita, se non l’ho penetrata, non riesco ad iniziare il romanzo: deve esserci prima di tutto il percorso più razionale, dalla trama, alla struttura, a tutto il resto.
G.: Ti farò adesso la stessa domanda che ti ho fatto l’ultima volta che ho avuto il piacere di intervistarti riguardo l’asciuttezza del tuo stile e il fatto che “Lascio che l’ombra” ha un’aria falsamente innocua (come gli altri tuoi, del resto): stiamo parlando di un romanzo con una trama da dipanare e molte riflessioni altre importanti, il tutto, però, sviluppato in poche pagine. La domanda è questa: la tua è una scrittura “a sottrarre”, o nasce così?
P.B.: Entrambe le cose. Esce così perché è stata tutta una corsa a sottrarre. Se leggessi “La cruna dell’ago”, il mio primo romanzo, non mi riconosceresti: io stessa, oggi, faccio fatica a rileggerlo e quasi mi infastidisce vedere la densità delle frasi; c’è un eccesso, forse perché ero molto più giovane e nella gioventù c’è un eccesso di tutto, bisogna dire tutto. Man mano ho imparato ad asciugare, togliere, levigare, tagliare anche un passaggio che mi piace ma non si adatta alla pagina, che non ha la giusta risonanza (perché la musicalità della parola per me è molto importante). E comunque, se è troppo è troppo, e si toglie. Un tempo dovevo lavorare molto di più per arrivare ad una pagina asciutta, come piaceva a me; oggi, non dico che la pagina non debba più essere lavorata, perché non è così, ma esce dalla mente già abbastanza… depurata.
G.: Beh, è giusto: nel tempo c’è stata non soltanto l’ evoluzione della persona, ma anche della scrittrice: forse si apre anche un percorso di conoscenza del proprio modo di scrivere per arrivare poi a se stessi. Però credo anche che tu ti sia divertita scrivendo questo libro, che contiene anche ricette, e molte altre cose davvero curiose e divertenti.
P.B.: Sì, mi sono divertita moltissimo, tanto che quando l’ho finito quasi ho avuto delle crisi di nostalgia della sua atmosfera e soprattutto di alcuni personaggi, della complicità che si è creata fra due persone completamente diverse fra loro: Giulia, la scrittrice che si improvvisa investigatrice, e l’anziano professore serio, severo, integro che, chiuso nella sua biblioteca, si occupa solo di testi e personaggi che oramai non interessano più a nessuno. Fra loro si instaura un rapporto di collaborazione che ha anche momenti gradevoli, perché volevo che Giulia, un personaggio problematico (è una scrittrice di scarsissima fama, che si arrabatta per mantenersi: insomma, non ha una vita facilissima), avesse anche momenti di leggerezza, che cerca di condividere con il professore, un po’ pedante ma, tutto sommato, simpatico: un signore, un vero signore di una volta.
G.: L’ultima riflessione riguarda il lessico. Quando leggerete questo o un altro libro di Paola Baratto, Amici, vi renderete conto di quante parole si potrebbero utilizzare conoscendo adeguatamente la lingua italiana, ma sono state dimenticate: invece Paola Baratto le utilizza e, naturalmente, in modo appropriato. Ho ritrovato in questo romanzo, Paola, il tuo piacere di ridare dignità a parole altrimenti perse e invece assolutamente perfette per rendere i nostri pensieri: la lingua italiana, usandole adeguatamente, ce lo consentirebbe.
P.B.: Sì, anche se una volta mi piaceva di più spulciare il vocabolario e trovare parole desuete: qualcuno se ne lamentava, diceva che per leggere i miei libri bisognerebbe avere sempre accanto un dizionario. A me non sembra un esercizio negativo,… ma insomma rimaneva questa critica sotterranea, che mi ha fatto riflettere e mi ha fatto usare parole più consuete, che non creino un senso di distacco nel lettore. Per me la cosa importante è non dare l’idea che io voglia fare sfoggio di cultura: ho usato parole che su di me esercitavano fascino, avevano un bel suono e sì, certo, erano da rispolverare… Ce ne sono tante, sono bellissime e mirate, ma qualcuno non gradisce e allora ho cercato di evitare, qui, quelle cadute in disuso.
G.: Invece, al termine di questa chiacchierata della quale ti ringrazio, ti invito a non perdere questa abitudine proprio perché, visto che abbiamo una lingua molto ricca, è bene che la si tramandi e la si insegni, anche: vivendo nell’epoca dove le parole non si scrivono più nemmeno per intero e si guarda al tempo e non alla qualità, un poco di cura per i dettagli non guasta. Grazie, Paola.