L’ATLETICA .
Questa è una (per me, bellissima) storia vera: e le Olimpiadi c’entrano, eccome..!
Nella mia vita, lo sapete, ho avuto la fortuna di incontrare persone eccezionali: in qualche caso sapevo del loro valore già prima di conoscerle personalmente; altre volte, invece, l’ho scoperto solo in seguito.
Quando quella mattina entrò in classe la nuova insegnante di ginnastica, capii immediatamente che non si trattava di una professoressa “qualsiasi”. Del resto, di professori e professoresse oramai me ne intendevo: ero già in seconda media e avevo ben avuto l’occasione di valutare il carisma e la preparazione di alcuni insegnanti (specie le professoresse di lettere e di francese, per esempio).
Quindi, dicevo, quando la nuova insegnante entrò in classe ne rimasi subito colpita.
Intanto, era bellissima: alta, fisico slanciato, viso abbronzato, occhi grandi protetti da occhialoni da sole e sormontati da sopracciglia accuratamente disegnate, aveva i corti capelli biondo-cenere fermati sulla testa da una larga fascia, che scoprì dopo essersi tolta il cappello- un baker boy-con un gesto elegante.
Elegante:ecco che cosa era quella nuova insegnante.
Una donna elegante e di classe: e la classe, quando c’è, la notano anche i bambini.
Eppure, non indossava nessun capo vistoso: anzi, l’altra cosa che mi aveva colpito era che sotto l’ampio giaccone indossasse informalmente dei calzoni morbidi, forse una tuta, e scarpe da ginnastica.
Destabilizzante.
E voi direte: che cosa ci sarà mai stato di così strano nel fatto che una insegnante di educazione fisica indossasse un abbigliamento informale? C’era che quella dell’anno prima veniva a lezione vestita come si vestivano allora le insegnanti: tailleur sobrio, un filo di tacco e un filo di trucco; niente che rivelasse la materia che insegnava.
La nuova profe, insomma, appariva così diversa da sembrare una specie di extraterrestre, e questo già mi piacque moltissimo.
Notai l’accento: non sembrava italiana.
Anche questo mi piacque: amavo la mia lingua, la sua letteratura, ma ero affascinata dall’idea di altri suoni, di parole diverse, di modi differenti di pronunciare l’italiano.
Ugualmente destabilizzante fu poi quella sua prima lezione.
“Niente palestra, per oggi: non ci conosciamo e invece, visto che dovremo passare un anno insieme, mi sembra il caso che facciamo quattro chiacchiere. Comincio da me”.
E ci raccontò, con quella sua voce di testa e l’accento strano, che aveva un amore infinito per l’atletica e che, anzi, l’aveva molto praticata, da giovane.
Giovane?
Eh, sì: anche se non avrei saputo darle una età, ora che ci facevo caso era sicuramente un po’ più adulta delle altre professoresse, che viaggiavano sulla trentina. L’abbigliamento sportivo, il fisico flessuoso, l’atteggiamento solare, però, non erano da “signora”, ma da ragazza: una ragazza cresciuta, questo decisi che era la nuova profe di ginnastica.
E anche questo mi piacque moltissimo.
Ci chiese se qualcuna di noi praticasse uno sport: alzammo la mano in quattro o cinque.
“Nuoto” fu la risposta (e pure per il nuoto e i miei “incontri magici” avrei una storia vera da raccontarvi e magari lo farò, una prossima volta).
“Il nuoto è un’ottima cosa (avrei presto imparato che lei vedeva cose buone in tutti gli altri sport), ma anche l’atletica è bellissima per delle ragazze come voi, in pieno sviluppo fisico e mentale: la corsa, il salto in alto e in lungo, per esempio, sono facili da praticare… e poi l’atletica è entusiasmante, è divertentissima..! Vedrete!
“L’Atletica”: ecco come, dentro di me, avrei chiamata quella mia nuova profe di ginnastica.
Perché da quella prima lezione (che proseguì con una sorta di gioco: lei suonava un tamburello e noi dovevamo memorizzare e replicare la sua sequenza ritmica), per me “Atletica leggera” e “la mia nuova “ profe di ginnastica” erano sinonimi.
E infatti le lezioni successive furono molto diverse da quelle dell’anno precedente: il riscaldamento si faceva all’aperto, nel cortile della scuola, e solo in caso di pioggia o neve si facevano al chiuso i giri di palestra che tanto mi annoiavano; la ginnastica serviva solo per riscaldarci e anche se continuavamo a usare funi, spalliere e trave di equilibrio, molto meno ci ritrovammo a maneggiare clave e cerchi, e molto di più, via via, ci confrontammo con buche della sabbia per il lungo, asticelle del salto in alto, metro e cronometro.
Insomma: la vecchia, noiosa, accademica ginnastica di colpo per noi divenne utile e viva, perché serviva a farci preparare allo sport, quello vero.
Che per lei lo sport fosse molto più di una passione si capì definitivamente quando, un po’ più avanti, ci confidò che anche suo marito era uno sportivo (un “allenatore” per la precisione) e che lei conosceva molto bene alcuni campioni, fra cui due eccezionali: Eddy Ottoz e Paoletta Pigna, vere leggende dello sport italiano di tutti i tempi.
Io quei due nomi li conoscevo: li avevo sentiti più volte alla televisione, nei programmi sportivi che guardava mio padre e nel telegiornale e, con l’ingenuità della ragazzina che ero, il fatto che la mia nuova profe di ginnastica frequentasse questi campioni mi sembrava suggellasse definitivamente la sua appartenenza all’empireo, il cielo più alto cui solo le anime elette possono ambire.
Sotto le sue cure, in breve, da bambine goffe che saltellavano qua e là in una vecchia palestra scolastica, ci trasformammo in accese atlete che si cimentavano entusiasticamente in qualunque tipo di gara la professoressa proponesse: l’entusiasmo, il nostro, derivava dal suo.
Chiese ed ottenne che la strada antistante la scuola, allora molto poco frequentata e dunque sicura, in certi orari venisse usata dalle sue classi per allenarsi nelle gare di velocità, singole o a staffetta. Col gesso si segnavano sull’asfalto la partenza e la linea del traguardo; a dare il “via” metteva a turno una di noi mentre lei, dopo avere controllato che ci sistemassimo bene ai blocchi di partenza e mettessimo le mani in appoggio correttamente dietro la linea bianca, stava all’arrivo e cronometrava i nostri tempi, li segnava e poi li commentavamo insieme.
Eravamo una classe molto unita: gareggiavamo fra di noi, ma non per questo smettevamo di tifare ognuna per le altre e specie durante le staffette, prese dall’agonismo, urlavamo e battevamo forsennatamente le mani per incitarci a vicenda, tanto che dall’osteria di fronte a volte uscivano di corsa gli anziani avventori, prima spaventati dal chiasso e poi divertiti dalla scena.
Lo stesso avveniva con il salto in alto e con il salto in lungo. Qualunque fosse la disciplina, di ciascuna di noi la profe teneva tempi e misure, per ciascuna aveva parole di elogio a prescindere dal piazzamento e per ciascuna parole di esortazione a migliorare anche se si era arrivate al primo posto: perché tutte noi, per lei, avevamo comunque ottime potenzialità.
Era esigente, badate, e anche molto, ma si rivolgeva a noi sempre con il sorriso e con grande rispetto.
Come nella parabola dei talenti, era importante che le sue ragazze mettessero a frutto tutti i propri, pochi o tanti che fossero.
“In atletica è importante vincere, naturalmente. Si gareggia per il podio, magari per la medaglia d’oro, è un obiettivo importantissimo, ma quello che davvero deve prima di tutto fare un atleta è impegnarsi sempre al massimo ed essere onesto con gli altri e con se stesso. Arrivare primo è bello solo se il successo è meritato: puoi vincere, e va bene, ma se vinci con una prestazione inferiore ai tuoi risultati precedenti, se non ti migliori mai, allora la vittoria è meno bella. Serve per la classifica, ma non per la tua vita. Se arrivi ultimo ma ti sei migliorato, beh, questo invece è un successo: e tutti possiamo farcela, con impegno, tenacia e onestà”.
Questo ci diceva la nuova profe: … cioè, non ce lo ha detto tutto di seguito come l’ho scritto io e magari le parole non sono state queste, ma il senso sì, quello sì, e lo ribadiva lezione dopo lezione.
Al contrario di molte mie compagne, io per lo sport non ero portata: di più nel nuoto, ma lo avrei presto abbandonato. Mi piaceva la velocità, però, mi piaceva l’adrenalina che saliva quando arrivavo al traguardo prima delle altre (cosa che succedeva assai, assai raramente) e anche la grinta e la spinta a migliorarmi che mi dava arrivare dietro le altre (cosa che invece succedeva molto, molto spesso); mi divertivo moltissimo quando saltavo in alto e in lungo, e pazienza se non ero per nulla un fenomeno.
L’atletica per me era davvero come aveva detto la profe: impegnativa ma esaltante, divertente, stimolante.
Sono sempre stata pigra, molto poco portata per l’attività fisica, ma quella donna speciale, con la sua positività, con la sua energia, con la sua dichiarata fiducia in me, mi convinse persino a gareggiare nella campestre (anche questa sarebbe da raccontare e magari lo farò): perché per lei io avrei davvero fatto di più, e ancora di più.
Avevo capito che non era la sconfitta a deluderla, ma la mancanza di impegno: e io, allora, per non deluderla mi impegnavo.
Tutto qui: sono sempre stata una persona elementare.
Con lei e per lei, preparammo anche una coreografia per la festa della scuola: un ballo in stile jazz, ovviamente, perché ci aveva detto che aveva vissuto in America, da ragazza.
America: adesso finalmente capivo da dove veniva quel suo strano accento…
Lei parlava e noi, io, la ascoltavamo: tante cose ci ha detto, in quell’anno.
Quello che non ci disse, però, era che il suo era solo un incarico provvisorio e che l’anno dopo non sarebbe stata più con noi.
Quando lo scoprii ne fui molto dispiaciuta: addolorata, quasi.
…E che grigiore ritornare a fare giri di riscaldamento al chiuso, in palestra, che noia le oramai inutili flessioni, gli allungamenti, le capovolte, i frustranti tentativi di arrampicarsi sulla corda, e quale delusione la nuova insegnante, tristemente ed evidentemente demotivata…
L’Atletica non c’era più e tutto il resto era noia.
Come prima: anzi, di più.
Perché avevo trovato il meglio e ora lo avevo perso.
Tante cose ci aveva detto, la profe: tante ma non tutte o, meglio, non del tutto.
Ci aveva detto, sì, che da ragazza aveva gareggiato, ma non che con i suoi cari amici, i fratelli Missoni, si allenava nel canottaggio, nel nuoto e nel tennis; che col canottaggio aveva vinto il titolo di Campionessa dell’Adriatico; che era stata una discobola che aveva partecipato a due Olimpiadi, a Berlino nel 1936, davanti a Hitler, e a guerra finita a Londra nel 1948 (unica atleta donna italiana a riuscirci), oltre che ai campionati europei, vestendo per ventuno volte la maglia dell’Italia; non ci aveva detto di vantare ben quattro titoli nazionali assoluti e che aveva migliorato per sette volte il record nazionale del lancio del disco.
Ci aveva detto, la profe, di aver vissuto in America, ma non che da bambina ce l’aveva portata suo padre per salvarla dai fuochi della guerra, essendo lei nata ancora sotto l’impero austro-ungarico.
Ci aveva detto, la profe, che il marito era un allenatore, ma si era scordata di aggiungere che era un tecnico federale che, fra l’altro, aveva allenato alcuni olimpionici, fra cui Eddy Ottoz; e ci aveva detto di conoscere Eddy Ottoz, è vero, ma non che il campione era anche suo genero; e si era scordata pure di dirci che, con il marito, nel 1950 aveva fondato la “Atletica Brescia”.
Se ne era scordata perché quell’anno lei stava con noi, scapigliate ragazzine di una scuola media di paese, non per dirci quelle cose, ma per ricordarci che la competizione è sana solo se è onesta e che lo sport insegna anche a vivere, se lo si pratica onestamente.
E’ anche a causa di quella lezione di onestà e di amore per la vita se detesto chi, specie se li riconosce migliori, pur di arrivare primo fa lo sgambetto agli altri, nello sport come nella quotidianità, ed è grazie a quella lezione se ancora mi esaltano le imprese di atletica, se capisco e condivido la gioia per qualche decimo di secondo guadagnato, per qualche centimetro in più superato, per un primato personale migliorato.
“Non avrai mai davvero vinto niente nella vita se non avrai migliorato te stesso, e per farlo devi lavorare: devi impegnarti e ce la farai”.
In parole brevissime è questa la lezione che mi ha lasciato e non ho mai dimenticata, come non potrò mai scordarmi della mia profe di ginnastica di seconda media: la mitica, l’Atletica,
Ljubica Gabric Calvesi, detta Gabre.
Solo da adulta avrei scoperto tutto quello che ho scoperto di ciò che la mia profe di ginnastica di seconda media era stata prima di incontrarci, e molto altro ancora di quello che sarebbe stata dopo il nostro incontro: che era giornalista professionista, già a capo dell’ufficio stampa dell’Olimpico durante i Giochi del 1960, e che scriveva sui principali giornali nazionali e locali; che si sarebbe dedicata, antesignana anche in questo, all’insegnamento e alla organizzazione della ginnastica per la terza età creando le “Pantere grigie”; che avrebbe lei stessa gareggiato nei Master di atletica vincendo per quattro anni nella sua categoria – neanche a dirlo – quindici medaglie d’oro e quattro d’argento nel lancio del giavellotto, nel disco e nel peso; che avrebbe ricevuto, per il suo impegno, altri importanti riconoscimenti pubblici; che sarebbe stata fra i protagonisti del film tedesco Herbstgold, pluripremiato in Europa e in America, e che il suo nome sarebbe comparso nella Treccani.
Brescia, infine, le ha intitolato il Campo di Atletica di Sanpolino.
Tenace sino alla fine, se ne è andata a 101 anni, stabilendo così l’estremo suo record: certamente di cose da pensare, organizzare, fare, Gabre Gabric Calvesi ne aveva troppe, perchè potesse lasciare la pista prima.
Molte volte, negli anni, ho pensato di mandarle un saluto: col mio lavoro sarebbe stato semplice, ma certamente lei non poteva ricordarsi di quell’anno lontano, quando a un gruppo di bambine di una scuola di paese insegnò con l’esempio che cosa fosse lo Sport, e così, per timidezza, per non crearle imbarazzi, non l’ho fatto.
Molte volte, anche in queste settimane di trionfi olimpici dell’atletica ho pensato a lei, a quanto certamente sarebbe stata felice di queste medaglie: lei, che per l’Italia è stata una atleta vincente, ma per me una meravigliosa e mai dimenticata insegnante.
E adesso che mi avete letto fin qui, ditemi, Amici: è vero o no, che nella mia vita ho incontrato persone eccezionali?
(Giancarla Paladini)