“Le streghe di Lenzavacche”, Simona Lo Iacono
Edizioni E/O 2016
pp. 160,
Non c’è società che non abbia le sue streghe; non c’è società che non le tema; non c’è società che non le voglia eliminare; non c’è società che non le abbia eliminate.
Ma chi è una “strega”? Una donna malvagia che opera malefici e sortilegi in sabba satanici.
Con questa accusa, per duecento anni in Europa e in America vennero uccise, spesso sul rogo, migliaia di donne.
Innocenti.
Colpevoli spesso solamente perché donne, specie se sole e povere: vedove, orfane, prostitute.
Reiette.
Nel 1600, in Sicilia, nei pressi di Noto alcune di queste donne maltrattate dalla vita si erano riunite in una casa isolata, creando una comunità in cui ci si accudiva a vicenda, si praticavano castità e preghiera e si studiavano le Lettere: ma il fanatismo e l’ignoranza ebbero la meglio e così, accerchiate e trucidate, nella memoria comune rimasero bollate con l’infamante titolo di “streghe”.
Tre secoli dopo, nel 1938, in pieno fascismo, due donne rivendicano la discendenza da una di quelle antiche donne perseguitate: sono la bizzarra Tilde, che sembra conoscere cose, fatti e medicamenti misteriosi proprio come una vera strega, e sua figlia Rosalba, che dell’antenata infelice porta il nome. Rosalba ha un figlio, frutto di una passione clandestina, incontenibile, misteriosa e pienamente ricambiata per un uomo presto sparito nel nulla: chiama il figlio Felice, a dispetto della gravissima disabilità che impedisce al bambino di parlare e di camminare… ma non di sorridere.
E felice sembra esserlo veramente, il piccolo Felice, accanto alla madre e alla nonna che non hanno alcuna intenzione di lasciarlo a se stesso o di chiamarlo “anormale”: anzi, appellandosi ad un cavillo della legge, Rosalba quasi di prepotenza iscrive il figlio a scuola. Lo accetta in classe solo il maestro Mancuso, arrivato in quella parte di Sicilia alla ricerca di risposte importanti per la sua vita, mal visto dal regime per le sue idee didattiche del tutto in contrasto con l’oscurantismo fascista.
La storia si dipana su due piani temporali e linguistici molti differenti e tuttavia perfettamente amalgamati dalla penna “magica” di Silvana Lo Iacono ne “Le streghe di Lenzavacche” (E/o Edizioni).
Si tratta di un libro emozionante, in cui l’Amore è declinato senza paura di apparire scontato e l’invito a non bollare con un marchio di infamia chi sentiamo diverso da noi si traduce in una narrazione originale e appassionata. Il finale è sorprendente e la dice lunga anche sulla delicata sensibilità dell’Autrice, scrittrice raffinata, magistrato competente e donna dal cuore grande: nel suo bel romanzo, che ha ricevuto a Giarre il Premio “Un amore di donna” – sezione letteratura, Simona Lo Iacono ha infuso tutte e tre queste sue preziose caratteristiche.
L’AUTORE:
Simona Lo Iacono, nata a Siracusa, è Magistrato presso il tribunale di Catania.
Ha pubblicato diversi racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Sul blog letterario Letteratitudine di Massimo Maugeri cura una rubrica che coniuga norma e parola, letteratura e diritto, dal nome “Letteratura è diritto, letteratura è vita”.
Il suo primo romanzo, Tu non dici parole (Perrone 2008), ha vinto il Premio Vittorini Opera prima. Nel 2010 le sono stati conferiti il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa e il Premio Festival del talento città di Siracusa. Nel 2011 ha pubblicato Stasera Anna dorme presto (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il Premio Ninfa Galatea ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande. Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo Effatà, vincitore del Premio Martoglio e del Premio Donna siciliana 2014 per la letteratura. Attualmente conduce sul digitale terrestre un format letterario dal nome BUC, che mescola al libro varie discipline artistiche, e cura sulla pagina culturale de “La Sicilia” la rubrica letteraria “Scrittori allo specchio”.
Presso il carcere di Brucoli, come volontaria, tiene corsi di letteratura, scrittura e teatro, con i quali intende attuare il principio rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione.
Ecco l’intervista a Simona Lo Iacono, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
Canzone consigliata: istintivamente “Felicità”, Lucio Dalla.
Giancarla Paladini: Tenevo molto a questo incontro, così come alla lettura di questo libro, un romanzo che definire “magico” è quasi ovvio. Come da “protocollo”, ci riassumi la storia che hai scritto?
Simona Lo Iacono: E’ un romanzo che si snoda su due piani temporali diversi. La prima parte si apre nel 1938, in un paese davvero piccolo della Sicilia, che ho chiamato Lenzavacche: in realtà, questo paesino non esiste, ma nel territorio di Noto, a San Corrado Fuori le Mura, esiste la contrada di Lenzavacche, che io ho trasformato in un paesino. Qui, ai margini delle grandi città e anche un po’ ai margini della Storia, vive una famiglia stranissima formata da due donne e un bambino: già in apertura di romanzo, grazie alla voce narrante della sua mamma Rosalba, si apprende che il bambino è gravemente disabile e la sua disabilità gli impedisce di parlare, muoversi, essere indipendente. Però il bambino è accudito con grandissimo amore dalle due donne, Rosalba, la mamma, e Tilde, la nonna, stravagante ma dotata di concretezza, ottimismo e tenacia fuori dal comune: infatti Felice, così si chiama, è un bambino amato, come dimostra il nome beneaugurante scelto per lui. Il nome, anzi, è la prima cosa che la madre decide per cambiare la sorte del suo bambino sfortunato: all’atto della nascita lo vede imperfetto e vacillante, ma decide che il suo sarebbe comunque stato un bambino felice. Così sarà, perché Felice è anche l’ultimo discendente di una stirpe di… “streghe”: la madre Rosalba e la nonna Tilde, infatti, discendono da un gruppo di donne che nel 1600, a Lenzavacche, nel medesimo casale in cui abitano le due, si erano riunite in una sorta di “sorellanza” fatta di solidarietà reciproca. Ecco che, nella seconda parte, il romanzo si apre nel 1600 e racconta la storia di questo gruppo di donne, del perché si riunirono in quella specie di comunità e del perché furono fraintese e perseguitate dalla società del tempo, tanto da essere bollate, appunto, con la nomea di “streghe”: “le streghe di Lenzavacche”.
G.: Ho una curiosità forse banale, ma mi chiedo perché hai scelto proprio il 1938, che è stato un anno tanto cruciale per l’umanità.
S.L.I.: L’ambientazione storica è stata dettata da due motivazioni fondamentali: la prima è stata una necessità puramente “normativa”. Tu sai che io faccio il magistrato: questa storia è nata dalla scoperta, avvenuta durante lo svolgimento di una istruttoria processuale, di un Regio Decreto del 1925, e dunque emanato in pieno regime fascista, che in uno dei degli articoli (che, per altro, sono rimasti in vigore nella moderna legislazione scolastica) ammetteva i bambini disabili o invalidi all’interno della scuola pubblica in classi “differenziali”. Ho scelto quel periodo storico per l’esigenza di fare entrare questo Regio Decreto nell’ossatura del romanzo: non l’ho ambientato nel 1925 perché il ’38 è anche l’anno dell’emanazione delle leggi razziali e quindi dal punto di vista storico è una data veramente significativa: il Fascio si avvia verso l’epilogo doloroso della seconda guerra mondiale e si trova, a livello storico, in una fase già critica. In questo anno così delicato nasce Felice, grande segno di contraddizione: il 1938 è anche l’anno in cui Hitler inizia il famigerato programma di “eugenetica”, che sarà fatto proprio dallo stato fascista, consistente nell’eliminazione di soggetti disabili, portatori di handicap, ciechi, sorsi, malati di Corea di Huntington. Anche per questo mi piaceva creare un parallelo tra la forte disabilità di Felice e i tempi in cui si ritrova a vivere, fatti di esaltazione della perfezione fisica e di conseguenza della soppressione dell’imperfezione o della tara, considerata un elemento da distruggere in quanto non produttivo. Il disabile costava risorse finanziarie che lo stato avrebbe preferito spendere per il riarmo, cioè per la guerra: quindi, semplicemente, andava eliminato. Ecco che Felice, nato con un gran numero di imperfezioni e con accanto due donne che desiderano, anzi pretendono, per lui una felicità e una pienezza quanto meno spirituale, è davvero un simbolo molto forte di diversità e di contraddizione. Mi serviva a livello letterario parlare del contrasto insanabile fra l’atteggiamento di queste due “streghe”, madri amorevoli, e la Storia, il “grande scandalo” di cui ci parla Elsa Morante, quello delle logiche di potere che nulla hanno a che fare con la pietà umana.
G.: In effetti il tuo sembrerebbe un grande inno alla “diversità”, perché i tuoi protagonisti, “diversi” rispetto al sentire comune, sono anche i migliori mentre, viceversa, quelli “omologati” rappresentano il peggio. Aggiungo che, purtroppo, la tua mi sembra anche una visione molto moderna: tu sembri quasi (dico “quasi”) sostenere che essere “diversi” significa spesso anche essere “migliori”. E’ così?
S.L.I.: … Più che “essere diversi” direi “essere unici”, essere se stessi in pienezza. In questo senso, la “diversità” appartiene a tutti gli esseri umani, ed è una unicità caratterizzata dalle imperfezioni, fisiche (come nel caso di Felice), sociali (come nel caso di Rosalba, che è una donna senza marito e per questo sconta sulla propria pelle una forte mancanza di accettazione), o caratteriali (come per Tilde, stravagante e fantasiosa): essendo esseri irripetibile, noi non possiamo che aprirci alla diversità dell’altro, alla sua unicità. Quando ci si omologa in massa, e dunque si aderisce in modo acritico alle ragioni del Potere, non si sta facendo solo una operazione che depaupera l’essere umano da un punto di vista creativo, spirituale e personale, ma si sta attentando anche alla propria unicità, che invece andrebbe sempre salvaguardata. Diciamo che il romanzo è un inno alla unicità di ciascuno di noi.
G.: Da un punto di vista puramente stilistico, la divisione del romanzo in due parti – penso soprattutto alla seconda – deve essere stata una bella sfida: anzi, ho quasi pensato, dato l’argomento, a una sorta di “scrittura automatica”…
S.L.I.: Beh, non ti discosti molto dalla realtà! Io ho sempre la visione dello scrittore come di una sorta di medium fra il mondo visibile e quello invisibile, perché in effetti scrivendo capitano cose stranissime, però in questo caso volevo proprio che la seconda parte fosse “profetica”, che desse al lettore la possibilità di leggere gli avvenimenti della prima parte da una prospettiva completamente diversa, come avviene nella vita, quando a posteriori abbiamo la possibilità di vedere chiaramente quanto ci è avvenuto: farlo a livello narrativo mi sembrava interessante, specie all’interno di un romanzo che ha pur sempre una matrice storica. Ne è nata una specie di macchina del tempo che va avanti e indietro, ma dando per una volta, almeno nella fantasia, la possibilità a questi personaggi sfortunati in una prima fase una successiva opportunità di riscatto e di felicità Una sorta di loro resurrezione, perché è proprio questo che avviene, nella trama… Ma non spieghiamo troppo…!
G.: Le “streghe” vengono definite tali soprattutto perché sono donne che “sanno”, che hanno delle conoscenze, hanno un “sapere”: la donna che “sa”, che quindi detiene il potere della conoscenza, viene solitamente mal vista. Non vorrei sembrare impertinente, visto che sto parlando ad un magistrato, ma il tuo “sapere” professionale e il tuo essere donna con una forte sensibilità artistica ( che si traduce nella quotidianità, perché ti muovi all’interno della parola in tutte le sue sfaccettature), insomma tutto questo… non è che ti fa sentire un po’ “strega”?
S.L.I.: Infatti! Altroché! Non è facile, nemmeno ai tempi di oggi, essere una donna che tenta faticosamente di conciliare dimensioni della propria vita profondamente diverse fra loro: si rischia di essere fraintese, in un campo o nell’altro, si rischia, anche di fronte a se stesse, di non assolvere bene i propri doveri anche di natura familiare… Insomma, è complesso e mi è capitato di scontare anche questo mio essere: ciò nonostante, è tale la felicità…! E poi, grazie a Dio!, i tempi si sono evoluti tanto da consentirci di essere donne impegnate su più fronti: però non è scontato riuscirci, nemmeno oggi. Le “streghe” che io racconto sono, come dici tu, le detentrici di alcune sapienze antiche, come quella dell’erboristeria, ma sono anche delle letterate, perché scoprono il piacere di saper leggere e scrivere e anche la libertà che dona saperlo fare: se oggi questo appare scontato e acquisito per noi donne occidentali, non lo è per tante altre donne in altre parti del mondo; pensiamo a Malala, la donna pakistana perseguitata, malmenata e quasi uccisa perché voleva andare a scuola. L’acquisizione degli strumenti letterari e della conoscenza viene percepito dal potere costituito come un attentato alle imposizioni: il potere intuisce che l’apertura alla letteratura e alla conoscenza è strumento di libertà, di crescita interiore, e questo -lo dico amaramente – apre a mentalità mai del tutto sopite, come dimostra quanto avviene nel mondo di oggi. Se ci fosse davvero un substrato di cultura molto più ampio, moltissime delle cose che accadono non avverrebbero: quello che blocca il nostro mondo, oltre alla mancanza di spiritualità, è la mancanza di conoscenza. La storia delle mie “streghe”, che vengono perseguitate anche perché sono donne di dottrina, che amano la lettura e la scrittura, è purtroppo tristemente attuale: ne ero consapevole, mentre la scrivevo, perché ho sempre fatto mia la lezione di Vincenzo Consolo, che definisce il romanzo storico “metaforico” in quanto, ambientando il racconto in tempi più antichi, offre allo scrittore il distacco temporale e la lucidità che gli permettono di parlare di dinamiche assolutamente moderne.
G.: In conclusione, si potrebbe emettere una doppia sentenza, ovvero, come dicevano gli antichi, “historia magistra vitae” e anche “amor omnia vincit”!
S.L.I.: …E’ vero!
G.: Io, e certamente come me tanti lettori, leggendo questo libro ho respirato un senso di pace: il che, secondo me, è davvero una magia della quale ringraziarti.
S.L.I.: La pace deriva forse dal fatto che scrivendo perseguo la mia vocazione personale, come fanno Rosalba, Tilde e le loro progenitrici che, con semplicità e grande sapienza, avevano capito che tramandare la conoscenza non è un atto aristocratico, che si può fare “dall’alto”, ma va fatto “dal basso” e per questo intrattenevano i bambini che istruivano con le fabulae, le fiabe, accompagnate da ninnenanne: significava accompagnarli nella crescita con la fantasia, che è un grande motore e servirebbe moltissimo anche al nostro mondo, in cui la crudeltà ha superato ogni misura.
G.: Bene: adesso ti lascio all’altra tua magia, ovvero la moltiplicazione delle ore della tua giornata. Alla prossima, mentre invito i nostri amici a scoprire, leggendoti, non solo una brava scrittrice, ma anche una donna di grande sensibilità.