“Era mia nonna. Storia di una donna veneta del Novecento”, Cristina Sartori, Biblioteca dell’Immagine Editore
pagg 143
€ 12,00
Era mia nonna. Storia di una donna veneta del Novecento”, Cristina Sartori. Chi abbia avuto la fortuna di conoscere e frequentare i suoi nonni, sa quanto sia stata grande, appunto, questa fortuna. Non sarò certo io a scoprire quanto i nonni siano indispensabili per lo sviluppo affettivo dei bambini . Il nonno serve perché è l’adulto più anziano della famiglia col quale si rapportano il bambino e il ragazzino e, tuttavia, proprio i nonni sono spesso compagni di gioco addirittura complici dei nipoti; i nonni raccontano loro la vita da una prospettiva del tutto diversa da quella offerta dai genitori e, col passare del tempo, insegnano ai piccoli che esistono anche la malattia e la morte, il grande tabù. Nel mezzo, una marea di ricordi e usi tramandati dalle loro parole, e poi carezze, e sorrisi, e coccole.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere e frequentare i suoi nonni, non li dimenticherà mai.
E’ in nome di tutto questo che la giornalista Cristina Sartori ha deciso che doveva perpetuare il ricordo di sua nonna Ada, che non è stata “soltanto” una madre di famiglia e una nonna affettuosa, ma anche, complice la sua lunghissima vita fatta di ben 107 intensissimi anni, testimone di un intero secolo di storia e vita italiana: il ‘900.
Lo ha fatto nel suo nuovo libro “Era mia nonna. Storia di una donna veneta del Novecento” (Biblioteca dell’Immagine Editore, prefazione di Aldo Cazzullo). Così, come bene spiega il titolo, questo libro, oltre che un affettuoso omaggio a una determinante persona cara, diventa anche un interessante e utile supporto per conoscere, attraverso la storia minima e pure esemplare di Ada Favero, pagine di storia che nemmeno i libri di scuola riportano.
L’Autrice:
CRISTINA SARTORI, giornalista professionista, ha lavorato con l’emittente televisiva regionale Telechiara, con il settimanale diocesano La Difesa del Popolo, con il Circuito radiofonico Bluradioveneto. È stata responsabile dell’Ufficio stampa della Basilica del Santo e del «Messaggero di sant’Antonio».Nel 2005 ha vinto il primo premio giornalistico Emilio Vesce per l’emittenza radiofonica.Tra le sue pubblicazioni, L’inattesa Camber. L’avventura di un oro olimpico (Edizioni Il prato, 2006); Padre Placido Cortese(Edizioni Messaggero Padova, 2010); La Basilica nella Città. La Veneranda Arca di S. Antonio in Padova, la storia, i restauri 2006-2011 (Edizioni Messaggero Padova, 2011); I veri ricchi di Padova. Donne, uomini e storie di volontariato, Autori vari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2012); “Correva l’anno … 1953 e 1963”, Comune di Padova, Settore Servizi Sociali, Padova, 2013.
Ecco l’intervista a Cristina Sartori, il cui sonoro, che trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina, contiene anche la lettura dell’Autrice di alcuni passi del suo romanzo.
Canzone consigliata: “Parlami d’amore, Mariù”, Vittorio De Sica
Giancarla: Cristina, che piacere ritrovarti! Come stai?
Cristina Sartori: Grazie per il tuo invito e per esserci ritrovate. Sto bene, stiamo bene, anche se i tempi sono difficili.
G.: Infatti nel libro del quale ci stiamo occupando ci fai respirare atmosfere “sane”, quelle delle famiglie che,unite, hanno affrontato difficoltà inenarrabili e ne sono uscite a testa alta: raccontaci qualcosa di questa nonna così amata, cui hai dedicato il libro.
C.S.: La nonna si chiamava Ada Favero; era nata nel 1902 a Cappella Maggiore, in provincia di Treviso, ed è morta a Padova, dove si era trasferita dal paese di Sprediano nel 1926, il 31 marzo 2009: quindi è stata su questa Terra per 107 anni. Io ho avuto la fortuna di vivere sempre con lei, di averla in casa: è stata ed è – ne parlo ancora al presente – una risorsa importante, perché è importante poter ricordare la propria nonna, le cose di un tempo, i modi di dire, il modo di vedere la vita, a maggior ragione in tempi come questi, in cui tutto si è complicato; spesso, guardare indietro aiuta a trovare la soluzione per andare avanti. Per me, Nonna era la donna più bella del mondo, anche se proprio bella non era; è stata una presenza femminile importantissima nella mia vita. Ha vissuto così a lungo ed è stata così esemplare anche nel suo modo di diventare vecchia e di sopravvivere a tante vicende che, dal momento che non ho figli, non sapevo come fare perché questi ricordi non andassero perduti: alla fine, sia pure un po’ titubante, ho pensato di metterli sulla carta. Così è nato questo libro, che raccoglie le storie che lei mi raccontava, i momenti di quel secolo incredibile che è stato il ‘900, che lei ha attraversato in pieno, e soprattutto raccoglie quello che lei ha lasciato a me, in età adulta: modi di dire, proverbi e pensieri profondi, che mi accompagnano tuttora.
G.: Perché avevi delle incertezze? Che cosa non ti fatto scrivere prima questo libro?
C.S.: Un po’ di pudore nel raccontare cose della mia famiglia (due miei zii, suoi figli, sono ancora viventi): avevo timore di “mettere in piazza” la nostra storia, anche se quello che ho scritto è sempre mediato dal mio sentire; non ho scritto “la storia” della mia famiglia, anche se ho voluto mantenere i nomi per dare fisicità ai personaggi. Mi ero posta il problema se fosse giusto o no: però poi ho pensato (e, fortunatamente, alcuni cugini che hanno letto il libro in anteprima mi hanno dato ragione) che un libro fosse un bel modo per rendere omaggio ad una grande nonna. E poi, in questo momento di velocissima comunicazione digitale in cui ogni informazione entra ed esce dalla mente e dal cuore, è importante, secondo me, “fissare” dei ricordi sulla carta, da leggere per far sì che i fatti di oggi diventino i ricordi di domani.
G.: Ma tu hai anche scritto un vero e proprio romanzo storico, perché, essendo una giornalista e una studiosa, hai “incorniciato” le vicende di tua nonna raccontando fatti storici utili ai più giovani, e non solo a loro: per esempio, hai raccontato la questione dei profughi veneti, letteralmente deportati dall’altra parte d’Italia durante le fasi più dure della Prima Guerra Mondiale, costretti a lasciare le loro case dall’oggi al domani. E’ una storia drammatica, che ha coinvolto migliaia di persone ma di cui non si trova traccia sui libri di scuola.
C.S.: La storia del profugato veneto è stata dimenticata. Dopo la disfatta di Caporetto, seicentocinquantamila persone su tutta la linea del fronte, dal Friuli fino al Piave, nell’arco di una manciata di ore furono costrette a lasciare le proprie case perché, essendosi abbassata la linea del fronte, i “nostri”, ritirandosi, facevano terra bruciata per impedire l’avanzata del nemico; queste persone hanno dovuto lasciare tutto, la casa, le proprie cose, il loro lavoro, il loro benessere e fra loro c’erano sia benestanti che contadini. Vennero mandati dall’altra parte d’Italia. All’indomani di Caporetto, nonna e la sua famiglia furono sfollati a Cava dei Tirreni, in provincia di Salerno: era un’altra Italia, in cui si parlava un dialetto diverso, per cui non ci si capiva, e in cui i residenti non volevano “quelli che venivano dal Nord” perché li consideravano “tedeschi”; per di più, rimasti senza lavoro e benessere, i profughi dovevano vivere solo col sussidio governativo, che non arrivava mai nei tempi utili, o non arrivava affatto. Morivano di fame, vivevano come mendicanti. Per di più c’era l’epidemia di febbre Spagnola, che al Sud fu molto forte specie nel 1918: la famiglia di mia nonna ne fu contagiata e ne morì Maria, la sorella prediletta di mia nonna, di dieci mesi maggiore di lei. Quindi, oltre alla guerra e alla deportazione, i miei familiari e gli altri profughi hanno anche dovuto affrontare la più grande pandemia di sempre, che ha fatto oltre cinquanta milioni di vittime.
G.: …Incrociandosi, fra l’altro, con la grande mattanza, la Prima Guerra Mondiale: è così che il tuo diventa “anche” un libro di storia…
C.S.: No, io non ho voluto fare un libro di storia, perché contiene certamente delle imprecisioni, delle quali mi scuso: piuttosto ho voluto accendere dei flash sul momento storico che andavo a raccontare, ma in maniera giornalistica, veloce; non avrei forse nemmeno avuto la capacità di scrivere un libro di storia, anche perché a raccontare tutto quello che è successo nel ‘900 è riuscito, forse, Montanelli…! No, io ho solo cercato di fissare dei momenti.
G.: Ma tua nonna che tipo era?
C.S.: Era una donna molto riservata, introversa; era una di quelle nonne “tonde” (lo dico con affetto), aveva capelli bellissimi, folti e morbidissimi, che sono stati sino alla sua morte il suo vanto; era una donna molto pratica, che ha cercato di affrontare i cambiamenti “reinventandosi” tante vite in una vita sola, perché sempre doveva trovare una soluzione. Aveva due modi di dire: uno l’ho fatto mio (“Avanti, Savoia!”), e fa bene ripeterselo quando non hai altra scelta; l’altro è “A tutto c’è rimedio, fuorché all’osso del collo”. Di fronte a tutti i problemi che ha vissuto, lei cercava sempre il modo più pratico per risolvere la situazione e ci riusciva, anche se con grande fatica. E’ stata una donna che non ha mai parlato dei propri sentimenti, che ha adorato figli e nipoti: noi, in particolare, che vivevamo con lei, abbiamo potuto godere il lato più affettuoso e complice di questa nonna meravigliosa. Che dire? Le nonne per i bambini sono sempre “talco e caramelle”, coccole e giocattoli: si pensa che, una volta adulti, un nonno non serva più; ma io, invece, ho avuto la fortuna di accompagnarla nella sua lunghissima vita anche da adulta e ho potuto cogliere tutte le sue trasformazioni, anche nell’accettare, con la vecchiaia, la perdita della propria autonomia fisica, che è riuscita a mettere in una prospettiva di ottimismo. Si è detta: “Questa è l’ultima vita che devo inventarmi”, ed è andata in casa di riposo, a novantaquattro anni, da sola: senza dirci nulla si è trovata un alloggio per autosufficienti, perché aveva capito che nel momento in cui fosse rimasta bloccata a letto a casa sarebbe stata un “peso”. Così, ancora una volta, ha accettato il cambiamento ed è stata di grandissima lungimiranza.
G.: E’ stata una donna libera?
C.S.: Dentro al suo cuore, sicuramente sì: probabilmente si è fatta condizionare dalle convenzioni dell’epoca, però le sue battaglie da “donna libera” le ha combattute e anche vinte, secondo me. Ha sempre cercato, fin da giovane, di lavorare fuori casa e lo ha fatto prima di sposarsi, quindi nei primissimi anni ’20 (e anche questo era un grosso traguardo, per l’epoca); si è poi “inventata” il lavoro di amministratore condominiale quando questa professione ancora non esisteva, negli ultimi anni ’70, per cui, da questo punto di vista è certamente stata libera e molto emancipata, pur con l’unico limite, forse autoimposto, delle convenzioni sociali. Ci teneva molto a mantenere le promesse e la parola data, oltre che al decoro nel porsi nella comunità.
G.: Tua nonna, aveva un piccolo rito che le segnalava la presenza accanto a lei della sorella Maria, rubata dalla febbre Spagnola: e tu, quando “sai” che tua nonna è lì con te?
C.S.: Direi sempre, anche perché vivo in quella che era la sua parte di casa, dal 1965 in poi. Qui ho ancora la macchina da cucire, di cui era orgogliosissima, ho le sue tazze da tè, i bicchierini in cui prendevamo insieme un vermouth a metà mattina, ho ancora dei vecchi giacinti e degli iris e le sue vecchie rose che, fortunatamente, sono riuscita a far sopravvivere; mi piace pensare di vederla girare per casa e quando sono in difficoltà mi ricordo quello che mi diceva sempre lei: “Avanti, Savoia! Guarda avanti, che il meglio deve ancora venire”.
G.: … E intanto ti faceva lo zabaione!
C.S.: Sì, con due uova, che se lo mangiassi adesso morirei, ma da ragazzina riuscivo a mangiarlo alle sei di sera, con la crema al Marsala (perché lei ci metteva anche il Marsala!). Miracoli delle nonne!