Laura Bocci, “Mitologia d’infanzia-Figure, intrecci di vita, Storia”, Vallecchi Firenze
2021
Pagg. 184
€ 14,00
Prendere la via dei ricordi per ritrovare e, finalmente rivelate nella loro verità, accettare le proprie radici: questo è il viaggio che, via via crescendo, compie la bambina protagonista del bel romanzo di Laura Bocci “Mitologia d’infanzia-Figure, intrecci di vita, Storia”, pubblicato da Vallecchi Firenze.
Nell’Italia del boom economico e della ricostruzione anche morale del nostro Paese dopo il ventennio fascista e la II Guerra Mondiale, la bambina del romanzo vive a Roma con i genitori e, per lunghi periodi dell’anno, con Zita e Giovanni, i nonni materni; d’estate per lei ed il fratello arrivano la libertà da una famiglia difficile e la Toscana, di cui padre e madre sono originari e nella quale trascorre lunghe settimane tuffandosi nel mare di Cecina, accudita dai nonni paterni Cesarina e Primo.
La bambina osserva gli adulti e li ascolta, elaborando nella mente (a suo modo) i loro racconti sui fatti drammatici degli anni passati ed i loro protagonisti e così costruisce una mitologia familiare in cui Eroi ed Eroine combattono strenuamente nemici potentissimi, a volte vincendo, altre subendo, altre, addirittura, soccombendo.
E noi lettori, intanto, vediamo come la Storia – quella con la “s” maiuscola – condiziona pesantemente le vicende personali di tutti, inevitabilmente segnate da guerre e morti in battaglia, inconfessati silenzi vigliacchi, amori infelici e famiglie coercitive.
I genitori della bambina sono i primi ad emanciparsi culturalmente, economicamente e socialmente, perché la famiglia in realtà proviene da una durissima realtà rurale, abituata a immense fatiche e infinito dolore per sopravvivere anche a pesanti costrizioni sociali: eppure è gente forte, volitiva, combattiva.
Le donne, specialmente, pur non avendo diritti ma solo pesantissimi doveri, non si arrendono, non sono affatto delle perdenti anche quando costrette all’obbedienza, tanto che nel romanzo a sembrare fragili sono gli uomini, che dall’alto del loro maschilismo grezzo si arroccano sui privilegi culturali e sociali del tempo imponendo il proprio volere, ma che senza le donne, vere architravi della famiglia e della sua economia, sarebbero persi.
Le storie di quella Toscana povera e sanguigna e dei suoi protagonisti rusticani si svolgono dunque in parallelo con gli eventi che nel ‘900 cambiarono il mondo, tanto che alla fine Laura Bocci costruisce un vero e proprio epos i cui eroi sono contadini e contadine, e soldati di trincea, e popolo minuto e troppo spesso muto.
“ Fu vera gloria?, verrebbe da chiedersi.
Davvero il Bene ed il Male stanno là dove la mitologia familiare costruita dalla bambina li aveva collocati?
Davvero i Lari e i Penati hanno fatto buona guardia?
Alla fine di questo coraggioso viaggio a ritroso nelle storie della sua famiglia, senza fare sconti a nessuno ma ugualmente con infinità pietà per ciascuno dei protagonisti, Laura Bocci scrive un romanzo intimo eppure storico, che racconta ben tre generazioni prima della sua: dai bisnonni ai genitori, dalla I Guerra Mondiale al fascismo, dalla II Guerra Mondiale alla Resistenza e alla Ricostruzione sino alle soglie del ’68, quando tutto si trasforma di colpo e insieme a ciò che nel mondo accade, ancora come giocando a specchio riflesso, anche la sua infanzia finisce bruscamente.
Infine, menzione di merito per il linguaggio: il toscano, quello vero, sempre corretto anche se a utilizzarlo sono persone poco alfabetizzate, e quello inventato da nonna Cesarina, talvolta bislacco ma in realtà più colto e logico di quanto possa sembrare.
L’AUTORE
LAURA BOCCI, germanista, traduttrice letteraria, scrittrice e docente universitaria, è nata e vive a Roma.
Ha tradotto e pubblicato molti classici tedeschi (Hoffmann, Chamisso, Brentano, Storm, Kleist, Lenz), ma anche autori novecenteschi (Sternheim Goldschmidt, Enzensberger, Gadamer, Anna Freud e Lou Salome).
Il suo primo romanzo-saggio, Di Seconda Mano (2004, Rizzoli), parla di traduzione e mette a tema le avventure, ma soprattutto le disavventure, di chi traduce letteratura. Negli ultimi dieci anni si è avvicinata alla psicoanalisi e il secondo romanzo, Sensibile al dolore (2006, Rizzoli), è un tentativo di narrazione sui temi del transfert e del femminismo: a partire dai primi anni ’70, a Milano, ha infatti seguito da vicino e partecipato alle alterne vicende del femminismo italiano. Nel 2012 pubblica per Manni Editore La Seconda India, nello scenario di un lungo soggiorno di studio in India e di un viaggio on the road attraverso l’immenso paese.
Per il forte interesse per le varie forme anche indirette dell’autobiografia, sviluppato anche nel corso di un Master in Artiterapie a orientamento Gestalt, ha creato il ‘Cantiere Autobiografia’, un gruppo di incontro sul tema della scrittura autobiografica.
Dal 2014 è SoulCollage® Facilitator e ha inserito questa metodologia creativa di origine junghiana all’interno dei suoi gruppi di scrittura.
“Mitologia d’infanzia-Figure, intrecci di vita, Storia” ( maggio 2021, Vallecchi Firenze), è il suo nuovo romanzo.
Ecco l’intervista a Laura Bocci, il cui sonoro trovate in alto , nella sezione audio di questa pagina.
Brano consigliato : “La Storia siamo noi” , Francesco De Gregori.
Giancarla: Solitamente, un buon modo per cominciare una conversazione su un libro è partire dal titolo, ma in questo caso partirei dal sottotitolo “figure, intrecci di vita, Storia”, perché veramente in queste parole c’è l’essenza del racconto. Le “figure”: cominciamo da quella della bambina, una bambina della seconda metà degli anni ’50, intelligentissima, acuta osservatrice, cui non sfugge nemmeno una parola detta dagli altri; è lei, la bambina, che elabora i Miti del titolo? E quali sono questi Miti?
Laura Bocci: La bambina è circondata da figure adulte, come sempre accade ai bambini, ma sono figure che hanno un significato particolare perché ognuna di esse (si tratta dei quattro nonni: la generazione dei genitori qui viene quasi completamente saltata) ha qualcosa di “mitico”: c’è il soldato della I Guerra Mondiale, che vede morire di tifo nella trincea suo fratello, la cui vita si svolgerà tutta all’interno del fascismo e solo con grande difficoltà si renderà conto che i tempi sono cambiati. Sua moglie, una delle due nonne, è una semplice sartina di paese che io definisco “senex et puer”, perché ha la capacità di rimanere bambina mantenendo una specie di ingenuità positiva che cerca sempre di “prendere il Bene quando viene e il Male quando tocca”; è una donna che si adatta e infatti si adatta anche al marito, trovando intelligenti strategie di sopravvivenza. L’altra grande figura è Zita, la nonna materna che attraversa una vita di dolore: infatti, io scrivo che “il suo lavoro è il dolore”, lei compie ogni giorno il “lavoro del dolore”. Nella I Guerra mondiale le muore il marito, molto amato e sposato quasi con una fuga dalla patriarcale (o, meglio: matriarcale) casa paterna, una fattoria, e poi le morirà anche il figlio, però è una donna molto forte e risoluta: in qualche maniera, è una donna molto autonoma, che lavora per mantenere se stessa e la figlia. Suo marito, l’altro nonno, è “l’anarchico”: un po’ burbero, era un personaggio enigmatico, del quale però le testimonianze di cugini più grandi di me che lo hanno conosciuto meglio mi hanno dato poi una immagine molto diversa; era un anarchico intellettualmente molto retto, pur essendo una persona semplice. La bambina, nei pomeriggi dopo la scuola, siccome i nonni dalla Toscana di cui sono originari per molti mesi l’anno si stabiliscono a casa sua, a Roma, sente i loro racconti che parlano di guerre, malattie, morti, del dolore e della fame: questo scenario, per una bambina così piccola, è impressionate da affrontare.
G.: Le figure femminili tutte (e lei lo ho spiegato molto bene) sono animate da personalità fortissime: quando dico “tutte” mi riferisco alle bisnonne, alle nonne, alla bambina, alla mamma; persino le suore hanno un carattere forte! Colpisce, di questa generazione di donne (“generazione” in senso molto ampio: in realtà si tratta di tre generazioni, come si leggerà nel libro e si capirà anche il perché siano proprio tre) che viveva in una sorta di blocco sociale (comandavano gli uomini, insomma), che è vero che deve sottostare a regole sociali rigidissime, ma – come lei ha appena spiegato – è come se le facesse proprie. Sembra che paradossalmente alla fine i “capi” siano le donne: è attorno a loro che girano le famiglie, nel bene e nel male. Le chiedo: queste donne si adeguano alle situazioni difficili per sopravvivere, o – per quegli anni, naturalmente – quella loro condizione le rassicura, si sentono quasi protette perché già sanno quello che devono fare, non ci sono sorprese…
L.B.: Io credo che abbiano vissuto male la loro condizione di donne e di mogli, perché nessuno ha chiesto loro mai che cosa avrebbero voluto fare, non c’era spazio per nessun tipo di scelta fin da quando erano bambine. A scuola andavano fino alla seconda elementare e poi venivano risucchiate dalle famiglie per lavorare (nel caso di Zita, per la grande fattoria), o altrimenti per accudire i fratelli più piccoli, e così via: io non credo che fossero felici, ma forse non avevano nemmeno l’azzardo di poter pensare che le cose potessero essere diverse. Io ne ho conosciute di donne di quella generazione che avrebbero volentieri studiato, che volentieri avrebbero visto un po’ di mondo, ma la maggior parte viveva nella campagna, in quel patriarcato rurale che anche se diventa matriarcato resta comunque una struttura oppressiva, perché comunque obbedisce sempre alle leggi dei maschi. Le leggi sono sempre quelle del patriarcato, chiunque poi le rappresenti: nel libro le rappresenta Benedetta, la grande matriarca autoritaria.
G.: …Che porta questo nome morbido, Benedetta, e invece in realtà…
L.B.:…In realtà è una donna terribile, di una freddezza estrema con i suoi figli, tanto che il marito (che forse non a caso si chiama Cireneo), poveretto, ai suoi figli deve dare le caramelle di nascosto, perché per lei esiste solo il lavoro; sua figlia Zita viene messa al lavoro a sette anni e, secondo lei, lì deve rimanere. Però, in qualche maniera, Zita riesce ad evadere, la sua scelta la fa fuggendo con un uomo di dieci anni più grande di lei che la famiglia, naturalmente, aveva osteggiato; in realtà lui è quello che si chiama un “buon partito”, appartiene a una famiglia benestante, ma Benedetta non vuole perdere Zita come forza-lavoro perché è lei la sua principale risorsa, è lei che essendo la più grande è la colonna dell’azienda familiare che poi diventerà una trattoria e poi un albergo. Ma Zita se ne va. …E però è sfortunata, perché il marito muore nella I Guerra Mondiale, nel 1915, pochi mesi dopo il matrimonio.
G.: E adesso parliamo degli uomini: abbiamo detto che le figure femminili sono fortissime, “rusticane” mi verrebbe da dire, ma anche gli uomini, che dal suo lungo e bel racconto non escono benissimo, hanno una qualche giustificazione non solo culturale: vanno in guerra, fanno una vita infame … quando riescono a sopravvivere alle guerre, perché hanno orizzonti cupi che non scelgono; si adattano a loro volta, insomma, a ciò che gli riesce più comodo, e anche se comandano sembrano alla fine quasi subalterni. Allora le chiedo, in maniera simile a quanto ho già fatto con le figure femminili: secondo lei che generazione è stata quella di questi uomini nati tra la fine dell’800 e i primi del ‘900? …Perché saranno proprio loro quelli che determineranno la Storia, di cui diremo…
L.B.: Beh, penso che per quella generazione e per la classe sociale cui i miei nonni appartenevano c’era poco da scegliere sia per i maschi, sia per le femmine: tutto era condizionato dall’ambiente sociale, dalle scarse possibilità. Mio nonno Primo, che era il più intellettuale di tutti, aveva fatto la quinta elementare, anche se sapeva a memoria la Divina Commedia, come era costume nelle campagne toscane (come nel film dei fratelli Taviani ,“La notte di San Lorenzo”, c’è il vecchio che recita l’Iliade): tutto era molto limitato, il destino era segnato e quello che dovevi fare facevi. Fu solo la generazione successiva, quella dei miei genitori nati negli anni ‘20, che dopo la guerra – anche se relativamente – poté riaccedere agli studi: agli studi, ma non all’Università, perché comunque le famiglie non potevano permetterselo economicamente. Tuttavia i miei arrivarono a Roma, mio padre ha fatto una buona carriera in una grande banca e mia madre ha iniziato a lavorare come maestra; quella generazione ha potuto scegliere qualcosa in più, poco, anche perché ha vissuto la guerra, ma qualcosa ha potuto. Gli uomini però in questo mio racconto non fanno mai una bella figura anche per l’atteggiamento che poi avranno verso mio fratello, che se fosse stato adulto ai tempi della loro gioventù sarebbe stato un partigiano e gli dicono, loro che erano fascisti: “Tu ci avresti tagliato la gola”; anche il padre della bambina era una persona autoritaria. Lo scenario maschile insomma era desolante, come desolante mi sembra anche ora: … ma questa è la mia opinione personale.
G.: No, sia pure senza mai fare processi sommari, possiamo condividerla: purtroppo, la cronaca parla da sola… E arriviamo ora alla Storia e ai suoi intrecci: c’è la “storia contadina”, come lei diceva, e poi c’è la Storia con la “S” maiuscola. Questo è anche un romanzo storico, nel quale si attraversano momenti epocali non solo per il nostro Paese, ma per l’umanità tutta: quella vergognosa mattanza che fu la I Guerra Mondiale e l’epidemia di “spagnola”, poi il fascismo, la II Guerra Mondiale, la Resistenza, la Ricostruzione, fino ad approdare alle soglie del ’68. Quello che mi è molto piaciuto è che nel libro questa Storia con la “s” maiuscola viene raccontata attraverso storie “minime”, cioè la quotidianità della gente comune: in realtà, se si potesse fare una proporzione si vedrebbe che quello che succedeva in campo nazionale ed internazionale succedeva anche in un piccolo paese come Campiglia, drammaticamente coinvolto in fatti di cui molto ancora non si sa. Ho così pensato a Francesco De Gregori: “La storia siamo noi”. Lo so, la citazione è forse un po’ abusata, ma credo che sia giusta.
L.B.: E’ vero che “la Storia siamo noi”: la Storia la fanno le grandi masse, anche se ovviamente le decisioni vengono prese dai centri di potere nazionali ed internazionali. Io, che sono germanista, potrei definire i protagonisti del mio libro “antieroi brechtiani”, cioè persone che sfuggono alla Storia, che hanno rilevanza solo quando diventano “massa” ma singolarmente non contano niente, le loro sono “vite a perdere”, vite di cui nessuno si preoccupa. Certamente nessuno si preoccupa del fatto che il soldato abbia a casa la moglie e un figlio neonato e comunque, come scrivo, la Morte tiene in pugno la pallottola austriaca e decide lei quando è il momento di sparare. Sono piccole formiche nella Grande Storia. Leggevo giorni fa un articolo sulla Cina, che ha l’ambizione di dominare l’economia mondiale offrendo all’Occidente una massa di lavoratori sterminata, praticamente a costo zero, con zero garanzie… Qual è il ruolo delle masse? Troppo è stato scritto sull’argomento perché io possa intervenire, però è vero che le decisioni si prendono “in alto”, ma poi la Storia la fanno quelli che stanno “sotto”.
G.: Siccome c’è molto forte (all’inizio sotto traccia, poi esplode) la questione della “rimozione”, del “colpo di spugna”, la necessità di dimenticare ciò che è stato, e ancora una volta si crea il parallelismo fra quello che succede a livello dei singoli e quello che avviene a livello nazionale, le chiedo: secondo lei, la “rimozione” è stata necessaria per ripartire e quindi non se ne poteva davvero fare a meno, o che altro? In un piccolo paese, dove si conoscono tutti, dove si sa chi si è comportato bene e chi si è comportato male, da un momento all’altro si assumono dei ruoli diversi, come se non fosse successo nulla: è un’ancora di salvezza, o è una forma di ipocrisia?
L.B.: …Beh, l’amnistia di Togliatti venne molto criticata, alcuni parlarono proprio di “colpo di spugna sul fascismo”, della cancellazione di questa memoria: fatto sta che c’è stata una rimozione collettiva, non solo a livello personale. Credo che non si sia dimenticato nulla di ciò che è avvenuto nelle famiglie, ma bisognava andare avanti in qualche modo e quindi forse è stato necessario, non lo so… Altrimenti ci sarebbero stati processi, eliminazioni, rese dei conti fra le persone… Si sarebbe arrivati alla guerra civile…
G.: E infatti siamo arrivati ad un passo: Bartali e Coppi hanno evitato la guerra civile…
L.B.: Certo.
G.: Il tempo è volato ed è già finito: io avrei voluto parlare anche della lingua e del linguaggio usati nel libro, dei luoghi, che sono meravigliosi, ma lasciamo ai futuri lettori il piacere di scoprirli. Però una cosa vorrei ancora chiederle: siccome certamente lei ancora incontra quella “bambina”, la ringrazi perché attraverso il suo racconto ci ha ricordato cose talmente quotidiane da far loro assumere una “materialità” che altrimenti attribuiremmo teoricamente alla Grande Storia sentendola lontana da noi, mentre, come abbiamo visto, non è così.
L.B.: Quello della lingua è un tema che mi è molto caro, con la resistenza a tutto della lingua toscana ed il congiuntivo che resta anche nelle lettere più sgrammaticate. Ci tenevo a raccontarlo perché è una lingua che amo moltissimo e a cui devo tanto.
G.: …A cui tutti dobbiamo tanto: e poi nel libro ci sono meravigliosi neologismi, c’è una grande ricerca filologica ed etimologica… Insomma: questo è un libro che dovete leggere.