“Non sempre d’estate fa caldo”
Questa è una storia vera: risale ai tempi in cui i treni italiani erano ancora divisi in scompartimenti.
I treni che prende per lavoro, all’andata come al ritorno, sono sempre stracolmi, a prescindere da giorno e orario. Sono zeppi di un’umanità per lo più sgradevole e maleducata: così ha imparato che è preferibile star seduta sullo strapuntino del corridoio (quando si ha la fortuna di trovarne uno libero), piuttosto che chiusa in uno sgabuzzino con gente che bercia interrottamente al cellulare, mangia e beve come se fosse al limite della sopravvivenza e, quando non la getta direttamente per terra, lascia poi la sua immondizia accatastata nel cestino che – c’è anche scritto chiaramente – servirebbe solo per la carta; oppure (… sì, è capitato anche questo!) si trovano quelli che allungano le gambe appoggiando le scarpe sul sedile di fronte, come fosse il divano di casa loro; e questo è ancora niente, se paragonato a chi d’estate caccia le sue ignude e tutt’altro che immacolate estremità podaliche sotto il naso dei malcapitati compagni di viaggio!
No, è deciso: lei viaggerà sempre seduta in corridoio.
Un’altra delle cose che ha imparato col tempo è che i vagoni di coda sono sempre i meno affollati, come se la gente pensi che arriverà prima, se viaggerà davanti: così, preso il treno successivo a quello consueto (un imprevisto l’ha fatta arrivare in ritardo), sale in testa al convoglio e lo attraversa, vagone dopo vagone. Il treno è parecchio pieno anche oggi, ma molto meno del solito: sarà che mancano pochi giorni a Ferragosto e persino i turisti, con questo caldo, hanno deciso di starsene a casa, sarà l’orario diverso, sarà che è solo mercoledì, ma ben presto la ressa si dipana e nel terzultimo vagone gli scompartimenti sono semivuoti.
Anzi, eccone qua uno completamente vuoto!
Di solito non ha problemi a stare in mezzo alla gente e a rispondere a chi attacca bottone, anzi la divertono i tipi umani che incontra, ma questo momento gira storto e non le va né di parlare, né di avere accanto nessuno e allora, visto che il treno è partito da alcuni minuti e si dice che oramai chi doveva sedersi lo ha già fatto (tanto che, nel corridoio, dietro di lei non c’è nessuno), contravvenendo alle sue regole decide di sistemarsi lì dentro. Treno sgombro, scompartimento vuoto: deve essere il suo giorno fortunato, perché per di più l’aria condizionata funziona perfettamente (e questa, come ben sanno i pendolari, non è cosa usuale). Meno male: ha bisogno di rilassarsi. Manca poco più di un’ora all’arrivo e lei intende usarla per svuotare la testa dai pensieri, quasi tutti bui, che la affollano. Pensa con soddisfazione che a casa la aspettano una bella doccia rigenerante, una cena leggera e poi il piacere di stare tra i suoi fiori, a godere della serata estiva. Tira fuori dalla borsa l’immancabile libro ma resta lì, col dito a tenere il segno della pagina: è davvero molto stanca e non le va nemmeno di leggere. Fuori c’è il sole dorato del tardo pomeriggio che fa sembrare luminosi la campagna, i paesi, i fiumi, gli stessi che in altri momenti nemmeno vedrebbe: ma adesso è proprio bello farsi cullare dal dondolio del treno, come quando, da bambina, lo prendeva per andare al mare e tutto voleva guardare dal finestrino vicino al quale, proprio come sta facendo ora, si sedeva beata. Inforca gli occhiali da sole, perché anche gli occhi sono stanchi e reclamano un po’ di relax, si accomoda meglio e sente che, finalmente, si sta riprendendo: il viaggio durerà ancora una quarantina di minuti e tutto va bene.
“Buonasera. Posso?”
La voce è di un tizio, che indica il posto vicino alla porta: alto, magro, capigliatura castana abbondante e abbondantemente fonata, giacca e cravatta (malgrado la canicola), scarpe di cuoio lucidissime e ventiquattrore, le fa subito antipatia non tanto per l’aspetto azzimato o per la domanda inutile (nello scompartimento c’è solo lei: ovvio che quel posto sia libero e lui ci si possa sedere), ma perché ha osato violare quello che oramai considerava uno spazio esclusivamente suo. Ha ragione lui, ovviamente, ma che ci può fare lei, se oggi l’ha presa un attacco di misantropia acuta?
“Prego”, risponde invece del “NO!”, grande come una casa, che vorrebbe imporgli: e siccome è stata educata alla cortesia ci mette anche un sorriso, a denti stretti, ma pur sempre un sorriso.
“Grazie”.
Si siede, mentre lei decide di tuffarsi nel suo libro: non pare un tipo chiacchierone, per fortuna.
Invece…
“… Certo che è strano vedere i treni così vuoti, no? Sembra un sogno viaggiare seduti, al fresco e senza il solito caos”.
Lei fa un breve cenno di sì con la testa, ma non parla: non ne ha proprio voglia.
“Beh, sono tutti in vacanza: anche i turisti, a quanto pare, visto che oggi non ci sono nemmeno loro e nei corridoi si cammina senza inciampare nei soliti valigioni!”
“L’ho appena pensato anche io, infatti” gli direbbe, sia pure con un tono antipatico, se volesse incoraggiare la conversazione: ma non lo vuole e così continua a tacere, nascondendo il disappunto dietro gli occhiali scuri.
“Lei non va in vacanza?”
Adesso, per educazione, dovrebbe davvero rispondere qualcosa, ma dato il suo umore del momento le verrebbe da dirgli, anche se non lo farà mai: “… E a lei che gliene importa?”; per fortuna, gli suona il cellulare.
“Mi scusi”, le dice, ed esce in corridoio a parlottare.
“Beh sì, dai, almeno è educato”: la parte civilizzata di lei, con questa giusta considerazione, cerca di ammansire quella selvatica, che però oggi è molto forte e rimane sulle sue.
Rientra.
“Ah, questi cellulari… Ho abbassato la soneria, così può leggere senza che la disturbi ancora.”
“Bene: se non mi vuole disturbare, perché continua a cianciare?” sono le parole che le verrebbe da sparargli in faccia: ma di nuovo la frase resta non detta.
“Eh, si pretende che siamo raggiungibili tutto il giorno: io, per esempio, avrei finito di lavorare due ore fa e invece mi tocca fare e ricevere telefonate come fossi in ufficio. Mah, che ci vogliamo fare?!”.
Ecco. Non è un tipo taciturno, questo qua, anzi, è uno che vuole ciacolare: ma lei non ci pensa proprio. E poi, che banalità: il pretesto del cellulare per attaccare bottone è fritto e rifritto come il parlare del tempo in ascensore… Con un tipo così scontato, la loro non sarebbe nemmeno una chiacchierata piacevole. E sta caparbiamente zitta.
Però ora a squillare è il suo telefonino: vorrebbe rispondere subito per zittirne il suono sgradevole, ma… trovalo nella borsa che sembra quella di Eta Beta! Tre, quattro squilli stura-orecchie, mentre il tizio la guarda con un sorrisino che la imbarazza e, al tempo stesso, la fa imbufalire. Eccolo, il dannato cellulare… che però di colpo si tace. Lei guarda chi ha chiamato: rogne in arrivo. Gratuite. Da una persona odiosa, che sa di chiamare nel momento sbagliato del giorno sbagliato. Decide di infischiarsene.
“Non era importante. Richiameranno”, dice al tizio, come a giustificarsi: … ma giustificarsi di che? E poi con chi? Con un tale che, con tutto il treno a disposizione, decide di piazzarsi proprio nel suo scompartimento? Comunque, mostra platealmente al tipo, che continua a guardarla con quel sorrisino odioso, che ha abbassato la soneria: è educata anche lei, che si crede?
Si rituffa nel libro per fargli capire che la conversazione, per quanto la riguarda, è bell’e che finita, ma ci mette quel secondo in più, che lui afferra al volo per proseguire:
“Ma sì, richiameranno: l’assurdo è che oramai se non rispondi subito magari si arrabbiano anche… Se poi sono milanesi non ammettono nemmeno per scherzo che uno non stia attaccato al cellulare dalla mattina alla sera. Ma noi – e con la mano oscillante accenna a se stesso e a lei, a indicare una loro comunanza – siamo dei provinciali e non abbiamo il loro virus: ci dobbiamo adeguare, ovviamente, ma vediamo benissimo l’aberrazione di certi comportamenti”.
Beh?! Che è questo “Noi provinciali” ?! Che ne sa lui di chi lei sia e se i suoi gusti e se le sue fisime siano metropolitani o di paese? Il fatto che stia lasciando la grande città per una più piccola non vuol dire che non potrebbe comunque essere milanese, romana, parigina o londinese: che ne sa lui della sua “provincialità”?
“No, mi sono permesso di dire “provinciali”, ma non intendo offendere, si figuri… Sono provinciale anche io: sono di Trieste. Più che provinciale, anzi, sono di frontiera…” E ride.
Cioè: ma questo, legge nel pensiero? O forse è la faccia di lei, che non sa fingere, che gli ha rivelato quello che aveva nella mente?!
In ogni caso, se pensa di avviare la conversazione continua a sbagliarsi di grosso: gli sorride tanto gelidamente che se questo fosse un racconto hard boiled ora il protagonista direbbe che “… nello scompartimento faceva così freddo che l’aria condizionata era diventata inutile: non sempre d’estate fa caldo”.
“Mai stata a Trieste?”
…Allora insiste!
“No”, mente. Figuriamoci se gli dice che ci è stata e le è anche piaciuta moltissimo: mica vuole dargli corda!
“Ah, dovrebbe: non perché sia la mia città, ma Trieste è un incanto. Ha una personalità fortissima ma non aggiogante come quella di Roma, Milano, Napoli o Firenze, dove o ti adegui alla città, o ne vieni espulso!”
Ecco: ci mancava solo lo spottone stile pro-loco. E poi, … ma “… aggiogante” ?! Non sentiva questo participio dal tempo dei dinosauri.
“Se poi viene quando c’è la Barcolana… Una meraviglia. Certo, bisogna prenotare per tempo dove dormire e mangiare, ma ci sono dei bei posti anche in Croazia, dove si sta bene e si spende molto meno che a Trieste. Se vuole, le scrivo i nomi”.
… E bravo il tizio, che ora, invece di lanciare l’accoglienza turistica di casa sua, promuove la concorrenza!
Non gli risponde, naturalmente, ma lui prosegue imperterrito il monologo.
“No, davvero, dovrebbe visitare Trieste, che è proprio bella: ma anche la sua città è bellina. Lei è di…, non è vero?”
Ta-daa!
Stavolta a gelarla è lui: come fa a sapere dove vive?
“Non si meravigli: l’ho già vista molte volte prendere il treno, ma la mattina. A quest’ora, invece, non mi era mai capitato di incontrarla”.
Le ha letto nel pensiero, di nuovo.
Inquietante.
Continua sorriderle con quel sorrisino odioso, che però, adesso, le fa un po’ paura. Quando l’ha vista? E come mai ha beccato proprio lei, dato che di solito alla sua stazione sale e scende una folla di passeggeri?
“Vede – continua la lettura del pensiero – quando si viaggia da anni sulla stessa linea, dopo che uno ha letto il giornale e guardato un po’ dal finestrino, da cui però vede sempre lo stesso paesaggio, per passare il tempo o si dorme oppure si osservano gli altri. E’ così che io l’ho notata… Certo – riecco il sorrisino viscido – qualcuno si nota più degli altri…”
Oddio, ci sta provando?!
Sarà che legge troppi libri, anche noir e gialli, sarà che la cronaca è quella che è, ma di colpo pensa che il tizio non sia entrato casualmente nel suo scompartimento, ma di proposito: l’ha vista passare nel corridoio e solo dopo ha deciso di spostarsi. Infatti, lo ricorda molto bene, dietro di lei non c’era nessuno quando si è seduta!
Adesso sì che ha paura, paura vera.
Calcola che stupidamente si è messa nel punto più lontano dalla porta e che per uscire deve passargli davanti: se lui volesse, non ci metterebbe niente a bloccarla. Non ha l’aria del violento, ma uno che ti nota da mesi e sa a che ora prendi il treno, dove sali e dove scendi non rappresenta certo il massimo della affidabilità.
Deve andarsene.
Però, anche se non è tranquilla, ha paura pure del ridicolo: non sa come, ma deve trovare il modo di cavarsela senza far troppo notare che la sua è una vera fuga.
Per fortuna, oggi la fatina dei desideri deve essere di luna buona, perché in quel momento gli vibra il telefono (sia benedetto l’inventore dei cellulari!) e il tizio risponde.
E’ l’occasione perfetta: finge anche lei di avere ricevuto una chiamata (del resto, aveva o no abbassato anche la sua soneria?) e, parlando allegramente con un interlocutore immaginario, afferra la borsa, fa un cenno di saluto al tizio, che la guarda stralunato mentre biascica un “Sono arrivata. Buonasera” e si infila nel corridoio verso il vagone precedente, quello ancora e quello ancora, e ancora, e ancora…
Salva!
Detto papale-papale, se la svigna, in barba al fatto che l’inquietante sconosciuto sa perfettamente che alla sua stazione mancano almeno venti minuti: e pazienza se si dovrà fare l’ultimo quarto d’ora in piedi, in mezzo ad una umanità per lo più sgradevole e maleducata, ma che adesso le sembra meravigliosa e necessaria!
Ora, beatamente strizzata fra gente urlante ai telefonini e panini sbocconcellati sotto il suo naso, la consola anche sapere che dopo le vacanze cambieranno i suoi impegni di lavoro e non prenderà più lo stesso treno all’andata né, certamente, non più questo per il ritorno: insomma, non rivedrà il tizio equivoco e preoccupante.
… “Però – le chiede una vocina dentro – lui vedrà te?”
Il pensiero le si avvinghia alla spina dorsale, pungente come aghi di ghiaccio, e lei si sente di colpo percorsa da qualche brivido freddo.
“Non sempre d’estate fa caldo”: se tutto questo fosse stato un racconto hard boiled si sarebbe intitolato così.
Buffo: ma, chissà perché, non le viene da ridere.
(Giancarla Paladini)