Ricky Barone, “Note Alte” (Meccanica delle idee Ed)
pagg 91
€ 10,00
La musica, specie quella dal vivo, mi emoziona. Già da piccolissima le note mi facevano volare le farfalle nelle stomaco: affamata e onnivora, ascoltavo e memorizzavo in continuazione canzoni, romanze d’opera, brani di musica classica e popolare, indifferentemente. E le voci dei cantanti, le loro voci, mi conquistavano. Ricordo che, a cinque o sei anni, rimasi affascinata da una meravigliosa voce femminile che cantava un pezzo “ipnotico”: solo molti anni dopo avrei scoperto che la cantante era Ella Fitzgerald e il brano “Misty”. Ancora oggi, quando sento quella voce lanciarsi sulle spericolate note scritte e suonate da Errol Garner, le farfalle volano. Ecco: per me, la resa incondizionata alla musica è tutta in quella canzone, nei brividi che mi dava e ancora mi dà.
Per Ricky Barone, adolescente degli anni’70, la folgorazione è invece arrivata con la potente “My Sharona” (The Knack): il rock apriva le sue ali su di un ragazzo che, da quel momento in poi, avrebbe masticato musica per tutta la vita.
Giornalista musicale, organizzatore di eventi, ora anche scrittore, Ricky Barone resta soprattutto un passionale appassionato di note, testi, interpreti e Autori, questi ultimi rincorsi testardamente nel corso di tutta la sua carriera. Ma appassionarsi di musica, lo sappiamo bene, vuol dire anche intraprendere la strada non sempre agevole dell’approfondimento, domandandosi: perché queste note? Che cosa c’è dietro quel “riff”? Come mai il tale testo è stato scritto usando quelle, e non altre, parole? La musica non è solo una piacevole compagnia, insomma, specie per chi, come Barone, si dichiara credente e praticante. In ogni fede, epoca e cultura la musica si è coniugata con la preghiera, fatta di parole ma anche di note, percussioni e silenzi, perfettamente uniti fra loro per liberare la propria anima e raggiungere il Divino (o, almeno, tentare di farlo).
Ecco perché Ricky Barone ha deciso di intitolare “Note alte” (Meccanica delle idee Ed) il florilegio delle sue interviste, scegliendone sette ad altrettanti importanti protagonisti della musica italiana.
Ad Angelo Branduardi, Massimo Bubola, Eugenio Finardi, Giovanni Nuti, Massimo Priviero, Antonella Ruggiero, Giuni Russo, Barone pone domande che, di solito, un giornalista musicale non fa: per esempio, a Branduardi chiede di San Francesco, a Finardi della sua “spiritualità laica”, ad Antonella Ruggiero se cantare musica sacra corrisponda ad un suo percorso di indagine interiore, a Giuni Russo – la più mistica – che cosa rappresenti per lei la preghiera. Domande inconsuete, ma soprattutto difficili da fare e a cui è ancora più difficile rispondere: per questo, non fatevi ingannare dal fatto che il libro sia composto da una novantina di pagine e parli di musica e musicisti, perché, come scrive l’Autore nella sua premessa, “…La canzone ha bisogno di Dio e Dio ha bisogno delle canzoni”.
Ecco la trascrizione dell’intervista a Ricky Barone, il cui sonoro trovate in alto, nella sezione audio di questa pagina.
Canzone consigliata: “One”, U2
Giancarla: Raccontaci questo libro.
Ricky Barone: E’ un libro sul rapporto fra la musica e la spiritualità che si è sviluppato nel corso degli anni: la gestazione è durata diciassette anni perché diciassette ne sono trascorsi dal primo articolo che ho scritto su questo tema fino all’ultimo. Ho raccolto sette interviste ad autori e cantautori italiani e poi ci sono altri argomenti, sempre sulla stessa tematica, che ho trattato sviscerando alcuni aspetti di questo rapporto, che è molto fecondo ed interessante e non è abitualmente trattato dalla critica.
G.: Però, tu dici: “Per me, parlando di musica, la “folgorazione” è arrivata con “My Sharona”, cioè con uno standard del rock, che sarebbe… “la musica del diavolo”: come lo spieghi?
R.B.: Eh sì, capisco: l’hai letto bene, il libro! Questa è la mia prima pubblicazione “ufficiale”: ho scritto migliaia di articoli, ma nella scrittura di un libro non mi ero mai cimentato, per cui ho raccontato anche un po’ della mia storia, l’inizio della mia avventura musicale. Io mi sono appassionato, appunto, con “My Sharona” e “The logical song” dei Supertramp: con questo libro mi sono un po’ aperto, io che, anche per timidezza, faccio fatica… Ho intervistato Massimo Bubola, Angelo Branduardi, Eugenio Finardi, Giovanni Nuti, Massimo Priviero, Antonella Ruggiero e Giuni Russo perché mi interessavano nella loro funzione di “indagatori” dell’analisi spirituale, che hanno ben frequentato, ma il mio cuore pulsa per la musica rock: “My Sharona”, fra l’altro, è una delle poche canzoni dei “Knack” e l’ho voluta inserire nel libro.
G.: Fra le tante interviste che hai fatto, che cosa ti ha portato a scegliere proprio queste e proprio a questi protagonisti?
R.B.: Sicuramente le ho scelte per la loro attinenza alla tematica, che, come cattolico praticante, ho sempre frequentato: sono riuscito a combinare la mia passione per la spiritualità con la passione per la musica, e per questo ho incontrato questi Autori: ce ne sarebbero stati altri, però in Italia questi sono, secondo me, tra i più importanti ad avere trattato con competenza e profondità questa tematica… Poi è successo che in alcuni casi io abbia anche organizzato un loro concerto, per cui si sono anche create le condizioni favorevoli per ragionare tranquillamente, senza l’assillo dei dieci minuti classici dell’intervista: così abbiamo parlato con calma, con serenità. E’ stato bello…
G.: Ma chi fra loro ti ha colpito di più, proprio in relazione alla delicatezza del tema?
R.B.: Premetto che ogni autore ha dato una sua chiave di lettura, come Eugenio Finardi, che dichiara senza problemi di essere un laico non credente e però anche di affrontare questo tema con profondità. Però, tornando alla tua domanda, ne cito due: la prima è Giuni Russo, che mi ha proprio lasciato il segno, con quell’intervista. Lei, lo sappiamo, è morta di quel male che sta accanendosi sul nostro tempo: quando l’ho intervistata era già ammalata e mi ha dato l’impressione di essere una donna piena di Fede; parlava in particolare di Santa Teresa (si era avvicinata al carisma carmelitano) come se fosse seduta al suo fianco, e mi aveva veramente folgorato con le sue parole di donna che crede profondamente; poi – anche perché lo conosco molto bene – Massimo Bubola, che ha una posizione molto profonda, è un vero conoscitore delle tematiche religiose, e che, oltre ad essere un cantautore, è oggi a mio avviso anche uno dei pochi intellettuali in Italia. Si possono passare ore ad ascoltarlo: ha un carattere un po’ spigoloso, ma le sue posizioni sono molto chiare, molto lucide.
G.: Ti ringrazio perché hai citato Massimo Bubola, che – lo ricordiamo per quei due o tre che non lo sapessero – ha avuto la fortuna, il privilegio, di accostarsi ad una persona di straordinaria spiritualità come Fabrizio De Andrè, il quale, benchè si invocasse laico, ha chiamato suo figlio “Cristiano”, come ricordava Don Gallo; e poi Giuni Russo, che – lo dice nell’intervista- in virtù del dono meraviglioso che aveva avuto, cioè il canto, ha dovuto (e, naturalmente voluto profondamente) anche allontanarsi dai soldi facili, dal grande successo, perché il canto è anche preghiera. Giusto?
R.B.: Sicuramente. Dalla spiritualità ebraica, che è alla base del Cristianesimo, sappiamo che l’inizio del mondo venne annunciato dal suono di un corno: il suono, il canto, sono un modo per comunicare con l’Assoluto. Giuni Russo dice che quando canta quasi perde il controllo di sé, come se levitasse, se si alzasse dal suolo. In effetti le celebrazioni di tutte le religioni sono costellate da canti; il canto è una delle prime espressioni spirituali, per non parlare del detto: “Chi canta prega due volte”. Secondo me è bello – e qualche volta mi capita – lasciarsi aiutare nella preghiera dal canto, da una bella melodia, da un bel sottofondo, da un suono anche delicato: ci sono tante modalità, ma sì, sono assolutamente convinto che il canto sia preghiera.
G.: Gli Autori che hai intervistato sono molto diversi fra di loro: forse l’unica cosa che li accomuna è che appartengono alla stessa generazione, anno più, anno meno. E’ un caso, oppure “quella” generazione di autori è stata la più prossima alla spiritualità nella propria arte, credenti o meno che fossero?
R.B.: Secondo me, non è un caso: c’è qualcosa a livello generazionale. Se vogliamo estendere il discorso a tutta la musica, oggi i musicisti sono forse più preparati tecnicamente, ma credo che lo spessore che avevano i “padri” sia difficile da trovare nelle ultime generazioni; non credo che sia colpa dei cantautori e dei musicisti di oggi, penso dipenda dalla società, che dà meno possibilità di approfondire certe tematiche. Tutto oggi viene fatto più rapidamente e invece per andare in profondità bisogna avere tempo. E poi c’è anche la questione artistica: faccio fatica a trovare la genialità che c’era qualche anno fa, la creatività del passato. Molti dei dischi che ho analizzato nel libro sono usciti dopo il Giubileo del Duemila, un momento particolare in cui Finardi o Branduardi pubblicavano dischi avendo però alle spalle una preparazione musicale e umana non indifferente.
G.: Una domanda un po’ personale: questo libro lo ha scritto un appassionato o un passionale? C’è più tecnica o più cuore?
R.B.: Secondo me, c’è più cuore: il libro è nato dal mio desiderio di aprire il mio cuore, di comunicare. Io non sono un professionista del giornalismo o della musica, però sono tanti anni che ci lavoro e credo sia stato proprio il cuore a spingermi ad aprire delle porte, a bussare – e a volte si fa fatica-, a metterci la faccia. Secondo me, la musica si divide appunto in due direzioni: quella che va verso il cuore e quella che va verso la mente; io preferisco seguire sempre la strada del cuore, anche se a volte si incontrano degli inconvenienti. Sono più per Springsteen che per i Pink Floyd, per capirsi: è per il cuore, che mi sono mosso e mi sto muovendo in questo ambito.
G.: Di solito, a chiusura dell’intervista, suggerisco ai visitatori di questo mio piccolo salotto un brano musicale: cosa mettiamo, qua?“My Sharona”?
R.B.: Mah, si potrebbe anche andare sugli U2: non so… “Pride – In the name of love”, o “One”… Ma fai tu…
G.: Allora opterei per “One”, che mi sembra una canzone davvero universale, da gospel, da preghiera, appunto. Grazie, Ricky: alla prossima