Ho intervistato Giulia Maria Mozzoni Crespi nel settembre del 2000: oggi, nel giorno in cui si congeda dal mondo, vorrei ricordarla.
A quel tempo, esattamente 20 anni fa, collaboravo con il TG dell’Arte, che mi aveva inviato a Varese in occasione della apertura ufficiale al pubblico di Villa Menafoglio Litta Panza: qualche anno prima la dimora era stata donata dal proprietario, il conte Giuseppe Panza di Biumo, al F.A.I., che aveva provveduto al restauro del monumento e aveva collocato parte della immensa collezione del padrone di casa in una prestigiosa permanente aperta al pubblico, così come il palazzo.
L’occasione era davvero importante: basti pensare che a “tagliare il nastro” sarebbe stato l’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.
Con il collega cameraman arrivai nella splendida casa patrizia: non senza qualche difficoltà, veramente, a causa del notevole spiegamento di vigili, polizia e carabinieri che per ovvie questioni di sicurezza dirottavano le auto degli invitati in percorsi obbligati. I controlli erano severi: senza invito non si entrava, ma anche con quello non fu semplice superare la massa di giornalisti, operatori e fotografi convocati per l’evento.
Il parco e la sala della conferenza stampa erano affollati della “fauna” tipica di queste situazioni: esponenti politici locali e nazionali si spostavano preceduti e seguiti dalla loro scorta, giornaliste e giornalisti sussiegosi, certamente firme di testate importanti, si aggiravano con l’aria di chi sta facendo un favore al mondo concedendo la sua preziosa attenzione (in realtà, chissà quanto avevano brigato per essere presenti proprio loro e non altri); signore e signori dall’abbigliamento originale (galleristi ? Artisti?) e signorine alte almeno tre metri , forse infiltrate da qualche agenzia di modelle per farsi notare da chissà chi, occhieggiavano con aria disinvolta e complice fotografi e operatori televisivi dalle capigliature selvagge, carichi di borse e obiettivi, che immortalavano chiunque (per la serie: “Non sia mai che c’è uno scoop e non me ne accorgo…”).
Insomma, decine e decine di persone fra cui farsi largo, tanto che faticai a trovare posto per seguire la conferenza di presentazione.
Per chiudere un più che decoroso servizio per il Tg mi sarebbe stato sufficiente raccontare l’evento, appuntandomi e riportando i passaggi salienti dei discorsi del Presidente Ciampi, del ministro Melandri e della Presidente del F.A.I.: anche meno sforzo avrei potuto fare se, come sventuratamente molti colleghi spesso fanno, avessi estrapolato interi brani e dichiarazioni dalla cartella stampa facendoli passare per farina del mio sacco … Ma chi mi conosce sa che se c’è un modo per complicarsi la vita, beh, la sottoscritta non se lo fa scappare: e infatti pensai che assolutamente dovevo intervistare i protagonisti.
Non presi nemmeno in considerazione l’idea di avvicinare Ciampi, non mi ero accreditata per quello e tentare di superare al volo il servizio di scorta era fuori discussione, a meno di non volersi fare arrestare: però avrei certamente cercato di intervistare la Presidente Mozzoni Crespi.
Oramai avevo deciso.
Detto così sembra facile, ma in queste situazioni ufficiali, piene di security, gremite di decine di giornalisti italiani e stranieri, e senza conoscere direttamente qualcuno dell’ufficio stampa l’impresa è pressocchè disperata: infatti quando, per correttezza, chiesi l’intervista agli addetti mi venne risposto – gentilmente ma senza appello – che il protocollo era rigidissimo e proprio non si poteva fare.
Ma io avevo la possibilità di avvicinare un pilastro della cultura italiana del ‘900 come Giulia Maria Mozzoni Crespi e non intendevo rinunciare: non senza provarci, almeno.
Non sono una temeraria, anzi, ma nel mio lavoro ho da subito imparato a seguire il mio istinto, senza strafare e ugualmente senza crearmi inutili paranoie (…se solo ci riuscissi anche nella vita di tutti i giorni…): una vocina, dentro, mi diceva che ce l’avrei fatta.
Così dissi al mio cameraman di tenere la telecamera pronta e di seguirmi: non avevo un piano preciso, ma speravo in un colpo di fortuna.
E la Fortuna arrivò: a un certo punto mi accorsi che, chissà come mai, la Presidente era incredibilmente da sola, davanti all’ingresso della Villa. Mi avvicinai sorridendo, guardandola dritta negli occhi, e subito sentii il suo sguardo, interrogativo e puntuto, puntarsi con diffidenza ora su di me, ora sul mio collega e la sua telecamera.
Se in quel momento mi fossi fermata a riflettere sul fatto che chi avevo davanti aveva guidato con pugno di ferro nientemeno che “Il Corriere della Sera”, allontanandone senza paura mostri sacri come Giovanni Spadolini e Indro Montanelli, mettendoci la faccia e infischiandosene dei nomignoli cattivi che gli invidiosi e i rancorosi le avevano affibbiato, una signora che trattava con i Potenti del mondo senza sottomettersi ma rispettava profondamente tutti i suoi dipendenti, anche i più umili, una così famosa e importante che persino la Regina Elisabetta II la invidiava per un magnifico quadro del “Canaletto” che decorava le pareti di casa sua, la soggezione mi avrebbe paralizzata: ma per fortuna in quel momento pensai solo che avevo davanti una donna che, come me, amava appassionatamente la bellezza, l’arte, la natura che il suo Paese aveva in abbondanza e che, visto che tutto questo rischiava di perdersi, si era impegnata con successo a preservarle e conservarle per le generazioni future; una donna, l’avrete capito, che mi piaceva assai.
Mormorai al mio collega: “Preparati, ci manderà al diavolo”, ma ugualmente le porsi la mano e mi presentai.
“Buongiorno, Presidente: sono Giancarla Paladini del “Tg dell’Arte”. Posso disturbarla per chiederle una battuta su questa giornata?”.
Silenzio.
“Adesso mi mangia” pensai, mentre questa donnina vestita con un abito di seta color turchese dalla linea semplice, al collo una imponente collana di ambra, i capelli acconciati senza vanità alla maniera degli anni ’60, mi stringeva la mano e intanto continuava a scrutarmi, seria.
“Solo una battuta, però: mi spiace, ma ho poco tempo”.
Mi parlò con voce ferma, che non ammetteva repliche, la stessa che un generale usa per comunicare le cose essenziali: un generale, però, che se c’è un assalto guida le truppe in testa alla carica, non uno di quelli che si nascondono nelle retrovie.
“Armiamoci e partite”, del resto, non era cosa che le si addicesse: ricca e importante per nascita, avrebbe potuto vivere largamente di rendita, godendosi la vita senza faticare. Invece Giulia Maria Crespi si era buttata nella mischia e per giunta in qualità di grintoso Editore del più prestigioso quotidiano italiano del tempo in anni ferocemente maschilisti, in cui le donne erano tutt’al più considerate graziose presenze adatte a ruoli subalterni e secondari, per giunta decidendo coraggiosamente e in controtendenza linee editoriali, direttori e collaboratori, e bacchettando anche domineiddio se non si faceva come lei, in perfetta coscienza e onestà, chiedeva (anzi: pretendeva).
Alla fine, le mie domande furono qualcuna in più dell’unica concessa all’inizio: non approfittai della sua disponibilità, ovviamente, ma la mia impressione fu che la Presidente non si sarebbe sottratta ad altre, malgrado tutto.
Ringraziai, grata e anche un po’ incredula, e lei mi salutò con quel suo sguardo puntuto e un leggero sorriso: dolce, direi.
Intanto, trafelato, uno degli addetti stampa aveva assistito lì vicino alla scena, ovviamente senza azzardarsi a interrompere ma pure chiaramente a disagio, sul viso una espressione comica a metà fra lo stupefatto e il preoccupato: chi era questa tizia che aveva intervistato nientemeno che la Presidente, senza prima farsi autorizzare dal suo ufficio? E come mai la Presidente aveva accettato?
Pronta, approfittando dello stordimento del poveretto, con un sorriso smagliante come se la mia domanda fosse un pro-forma, chiesi: “Grazie, la Presidente è stata gentilissima. Ora potrei intervistare il conte Giuseppe Panza di Biumo? Solo una battuta, stia tranquillo…”.
E fu così che intervistai anche quello straordinario collezionista e mecenate, amico di Pierre Restany e John Cage, che usava le opere di Mark Rothko e Robert Rauschenberg per arredare le stanze in cui viveva perché, semplicemente, la loro bellezza lo faceva stare bene, e che ne ha generosamente donate centinaia ai musei di tutto il mondo perché tutti ne potessero godere.
… Ma questa è un’altra storia…
(Giancarla Paladini; foto Enrico Oliviero)