Up (questa è una storia vera)
(Questa è una storia vera: veri i protagonisti e parte dei fatti; il resto è stato adattato di quel po’ che serve per non farli riconoscere, come sempre e come deve essere per il rispetto dovuto alle persone).
A C., G. era piaciuta subito: l’aveva notata fin dal primo giorno di scuola. Lei, capelli color miele legati in una lunga coda di cavallo, un golfino beige sulla gonnellona blu tutta pieghe, al braccio i libri fermati da una cinghia a righe rosse e bianche, camminava saltellando in avanti e indietro fra due gruppi di compagne, felice di cominciare il Classico.
C. si era meravigliato di se stesso: dall’alto dei suoi sedici anni, lui, che già stava in prima liceo, mai aveva degnato di attenzione una ragazzina del ginnasio, ma, del resto, questa era diversa da tutte le altre.
C. la guardò meglio, cercando di non farsi scoprire: era bellissima.
Cioè… non era poi così bella, anzi: aveva il naso aquilino e sporgente, gli occhi piccoli, la voce stentorea e quasi mascolina, i movimenti decisamente poco aggraziati… ma aveva un sorriso meraviglioso.
Lei sorrideva e dal suo corpo sembrava fuoriuscire un’aura che si allargava intorno sino ad abbagliare chi la guardava, facendo sparire tutto il resto: o, almeno, così sembrava a C., che da quel momento fece di tutto per trovarsi “casualmente” dove stava lei. C. imparò così bene le abitudini di G. da riuscire persino a precederla, così, tanto per non far credere a nessuno – soprattutto a G.- che se ne fosse innamorato e la seguisse ovunque. Dal canto suo, G. non pareva proprio accorgersi di lui, nemmeno quando le amiche cominciarono a fare qualche battutina maliziosa.
“Lascialo perdere: è presuntuoso e polemico. Pesantissimo, insomma”.
G. agitava la coda di capelli color miele per farla scivolare su una spalla, la afferrava con un gesto elegante della mano e faceva spallucce:
“Vi preoccupate per niente”, e liquidava il discorso.
Invece G., che era una ragazza sveglia, aveva da subito notato quel ragazzo alto e snello, i bei capelli neri ondulati e ben pettinati, gli occhiali dalla montatura spessa e l’aria un po’ imbronciata che, guarda un po’, si ritrovava davanti ogni momento: e la cosa, va detto, non le dispiaceva affatto.
Ma C. non poteva saperlo e mai si sarebbe fatto avanti se non avesse avuto almeno una flebile speranza: un due di picche da una ragazzina, uno come lui? Proprio no, grazie!
Gli anni del liceo passarono, sempre fra incontri … “casuali” a Messa, al cinema, sul corso, e senza che mai C. trovasse il coraggio di attaccare bottone.
G., dal canto suo, non lasciava trapelare nulla: così fanno le ragazze serie, no?
Per fortuna, anche lei si iscrisse all’Università: lui era al terzo di Giurisprudenza e tutti i giorni andava in città per seguire le lezioni.
Fu per caso che si trovarono seduti vicini, quella volta: da allora, non si separarono più.
“Che ci troverà, poi, la figlia mia in quel ragazzo? – chiedeva il giorno del fidanzamento ufficiale la madre di G. a suo marito, mentre si stavano preparando per il rinfresco – E’ un bravissimo giovane, intendiamoci: serio, educato, laureato, di famiglia per bene, ma… c’ha questo carattere così complicato… Cupo, a volte mi pare perfino cupo: lei invece è tutta vitalità e sorrisi… Eppure sembra felice: mah… Speriamo in bene”, concluse allacciandosi la collana di perle.
Effettivamente, a vederli insieme sembravano il giorno e la notte, sempre con la faccia un po’ corrugata lui, sempre allegra e comunicativa lei.
“Fa il burbero per non fare capire com’è davvero”, disse quella sera G. alla madre, leggendole negli occhi il dubbio che quella a parole non avrebbe mai trovato il coraggio di esprimere.
“Ah sì? E com’è?”- non riuscì a trattenersi la madre.
– Un orsacchiotto brontolone, che mi vuole tanto bene e mi sposerà presto! – rispose G. e, facendo una piroetta su se stessa, mostrò alla madre l’anello di fidanzamento che lui le aveva messo al dito quel pomeriggio, davanti a tutti.
C., iscrivendosi a Giurisprudenza, aveva sognato austere aule di tribunale in cui difendere eroicamente innocenti imputati salvandoli da ogni ingiustizia, ma quando seppe di un concorso per entrare nella pubblica amministrazione si presentò e lo vinse senza difficoltà: ora poteva sposare G., e solo questo gli importava.
E infatti la sposò, in una bella mattinata di maggio: e lasciò tutti di sasso la sua incredibile allegria durante la grande festa, durata fino a sera.
La felicità, come il dolore, a volte rende irriconoscibili.
Iniziò così il loro matrimonio felice: lei cominciò ad insegnare, lui andava in ufficio senza rimpiangere la sua mancata carriera da Perry Mason, ben felice di avere tempo libero da passare con G. e con i loro tre figli, arrivati uno dopo l’altro.
La domenica tutti insieme alla Messa e poi in pasticceria per i cannoncini alla crema, le vacanze al mare d’estate, il Presepe a Natale, le Uova di Cioccolato a Pasqua. Riuscirono a comprarsi una casetta col giardino, che G. amava molto e C. molto meno:
“E’ piccola, ci stiamo stretti: per non far dormire i bambini nella stessa camera ho dovuto rinunciare al mio studio” – brontolava in continuazione lui dopo la nascita del terzogenito – Lo studio era l’unico posto in cui potevo stare tranquillo e adesso… Basta, dobbiamo traslocare!”.
“Ma che dici? E’ così bello stare tutti insieme-insieme!”, lo stuzzicava lei, che poi si divertiva a prenderlo in giro per la sua totale mancanza di senso dell’umorismo.
“… Eh sì, perché tu hai la cucina e il salotto, e d’estate anche il giardino per i tuoi passatempi: ma io dove posso leggere in santa pace? La moglie è la regina della casa, ma lo studio era l’unica stanza in cui io fossi re!” si lamentava, burbero, lui.
“Maestà, ma io in cucina ci sto per fare da mangiare a tutti e cinque, in salotto per correggere i temi degli studenti e in quanto al giardino lo avete voluto voi, mio Sire, perché io sono talmente negata per il giardinaggio che potrei uccidere un albero solo guardandolo! Comunque, Maestà, fatevene una ragione: le casse del regno non permettono altri castelli, almeno per ora”.
E G., dopo avergli parlato modulando abilmente il solito vocione stentoreo e mascolino, gli piazzava negli occhi l’altrettanto solito incantevole sorriso, stampandogli poi un bacio sulla guancia.
“… Ah, voi donne… Come starebbero meglio gli uomini senza di voi, che comandate e comandate… e sfottete pure”, mugugnava C. (ma mentre parlava rideva sotto i baffi).
Sapeva bene che tutta la casa, tutta la famiglia, tutta la rete delle loro amicizie giravano attorno a G.: senza di lei, sarebbe stato solo e triste, si diceva ogni sera, dandole la buonanotte.
Negli anni fra loro poco era cambiato: lui sempre brontolone e polemico, lei sempre allegra e sorridente. Le loro schermaglie erano un gioco che divertiva anche i bambini, i quali però, crescendo, si facevano ogni volta la solita domanda:
“Ma come fa una come la mamma ad andare d’accordo con uno come papà? Perché lui è buono come il pane, ma è così pesante…!”
I figli presto diventarono adulti, si sposarono e C. avrebbe potuto riappropriarsi del suo agognato studio, ma proprio in quel periodo una piccola eredità e una ghiotta occasione gli fecero fare un colpo di testa: comprare una casa grande il doppio, con il doppio delle camere e vicina all’appartamento della figlia maggiore.
“Ma tu sei matto!” gli disse una trasecolata G. quando lui gliene parlò, entusiasta. Ma lui era, appunto, talmente entusiasta che G. non ebbe cuore e così… :
“Va bene: ma a patto che il tuo regno sia sempre in ordine, sennò quando entro per pulirlo faccio volare via tutto quello che è fuori posto!”.
C. annuì, zittito da quella uscita poco usuale di G., che di solito non era così tanto aggressiva:
“…Sì, sì..”.
“…E ai fiori del giardino, se li vuoi, ci pensi tu, perché io potrei uccidere un albero solo guardandolo!”- disse definitivamente lei, fingendo un broncio che subito si trasformò nella risata allegra che tutti le conoscevano – Ma no, scemo: sto scherzando! Effettivamente mi sembra una grande sciocchezza che adesso, a più di sessant’anni, invece di ridimensionarci, ci allarghiamo, ma se è questo che vuoi, compriamola. Almeno saremo vicini a nostra figlia e la zia M. verrà a stare da noi, poverina, in una camera tutta sua”.
Però la zia M., quasi centenaria, riuscì ad abitare poco tempo con loro e dopo un paio di anni anche il figlio più piccolo si sposò: la grande casa ora era davvero immensa e C. pensò che G. aveva ragione ad essere scettica, quando l’avevano comprata:
“Ma io sono fatto così: sono uno zuccone, non c’è niente da fare. Avrei dovuto darle retta. La donna è la regina della casa e sa quello che è meglio per la sua famiglia: come faremmo noi uomini senza le donne?” si disse qualche volta C., senza mai farsi capire da G., naturalmente, ma guardandola con dolcezza.
“La donna è la regina della casa e sa quello che è meglio per la sua famiglia: che facciamo noi uomini senza le donne ? Che faccio adesso io senza mia moglie?”.
C. parlava alla vicina di casa come imbambolato: G. se l’era portata via in meno di due mesi una malattia improvvisa.
“Improvvisa, improvvisa… Ma come si fa? Stava bene, stava bene… Si lamentava che si sentiva stanca, ma chi poteva pensare…. E io che la rimproveravo… G., sei tu che vuoi stancarti: i nipoti sono grandi, che bisogno c’è di cucinare per loro tutte quelle torte?”. Non avevo capito, non potevo immaginare… E adesso io, che faccio senza di lei?”
La vicina lo abbracciò, in uno slancio di confidenza che solo la pietà che provava per l’uomo, improvvisamente vecchissimo, le suggerì istintivamente: anche lei era sorpresa e addolorata per quella scomparsa. Era andata ad abitare accanto a loro vent’anni prima e, come tutti, si era chiesta perché diavolo quei due signori soli vivessero in una casa così tanto grande e, come tutti, che cosa avesse trovato una donna brillante e simpatica come la signora G. in un signore educato e sicuramente buono come il pane ma ombroso e brontolone come il signor C.: quando era uscito il cartone animato che raccontava di quella coppia che invecchiava insieme, lei così solare, lui così ombroso, aveva pensato ai suoi vicini, ma mai avrebbe immaginato che, alla fine, come nel film G. se ne sarebbe andata come la lei del cartone così, improvvisamente.
“Sono preoccupata per il Signor C. – disse la vicina qualche mese dopo a suo marito – Non lo vedo da un sacco e poi da almeno quindici giorni tutte le tapparelle della casa sono abbassate, tranne quella del suo studio, che è su a metà. Non vorrei che fosse malato”.
“Ma no: l’ho incontrato un paio di mesi fa e mi è sembrato stesse bene. Sarà al lago: sai che hanno una casa lì”.
“Ma ci vanno d’estate, quando fa caldo, e adesso è ancora freddo: e poi, che ci fa da solo al lago uno di quasi novant’anni ? Se fosse tuo padre ti sentiresti tranquillo sapendolo lontano e solo? Figurati se i figli si fidano… Se vedo uno di loro chiedo notizie, ma non li incrocio mai…”.
Qualche giorno dopo:
“Avevi ragione: sul portoncino c’è l’annuncio”.
Il marito della vicina parlò dolcemente alla moglie, attonita.
“…Il Signor C.?”.
“Sì: è morto in ospedale. Ieri hanno fatto il funerale”.
“Me lo sentivo, me lo sentivo…”.
La vicina si ritrovò con un gran magone dentro, maledicendo la sua idiosincrasia per i necrologi, che saltava regolarmente quando sfogliava un quotidiano: se avesse letto, se avesse saputo, se avesse chiesto notizie…
Andò meccanicamente alla finestra che dava sulla casa dei Signori C. e G.: le sembrò di vederli affacciati al balcone a salutare i nipoti, come quella volta che il più grande aveva appena preso la patente e il nonno era convinto che facendo manovra in cortile sarebbe andato sbattere, e brontolava così forte che lo aveva sentito anche lei, che così aveva assistito a uno dei suoi famosi e buffi battibecchi con la moglie; rivide la zia M. salutarla in un lontano giorno di sole, mentre le diceva tanto bene di quei nipoti che se l’erano presa in casa e che se non fosse stato per loro, visto che non aveva figli e nemmeno soldi, avrebbe finito i suoi giorni in un ospizio; rivide il sorriso splendido e sorpreso della Signora G. quando, per ringraziarla di averla aiutata con la raccolta dei punti del supermercato, le aveva regalato un grande cesto pieno di primule colorate e G., facendola accomodare in salotto, quel loro inutilmente immenso salotto, aveva detto al marito: “Guarda, C., che bei fiori mi ha portato la signora: lei non lo sa che io con i fiori sono così negata che potrei uccidere un albero solo guardandolo!”, ed era scoppiata nella sua contagiosa risata, abbracciandola grata; rivide C. che, qualche mese prima, nella penombra di una lampada guardava silenziosamente la strada dalla finestra dello studio, che tanto aveva desiderato e che ora che G. non c’era più lo faceva sentire ancora più solo, e ricordò di avere pensato, osservandolo da quella volta in poi, ad una vecchia canzone che dice:
“Com’e’ triste l’uomo solo che si guarda nello specchio: ogni giorno un po’ piu’ vecchio e non sa con chi parlare; passa giorno dopo giorno senza avere, senza dare. Quando il sole va a dormire ed il cielo si fa scuro resta solo una candela ed un’ombra sopra il muro”.
Allora la vicina tirò la tenda della sua finestra per non vedere altro, ritirandosi di colpo, vergognosa come se stesse spiando in casa altrui: ma nelle orecchie aveva ancora la voce tonante e mascolina di lei e la sua risata, i brontolii di lui e la sua cortesia d’altri tempi e le note di quella vecchia, triste canzone.
Eppure sorrise.
Ora li stava vedendo di nuovo: erano seduti su un vecchio autobus.
G. teneva la testa appoggiata sulla spalla di C., che aveva il capo reclinato contro quello di lei.
I capelli color miele di G., appena scompigliati dal vento che entrava dal finestrino aperto, si mescolavano a quelli neri e ondulati di C.
Sembravano comodi, rilassati, pronti per quest’altro lunghissimo viaggio.
Insieme.
(In memoria di G. e C. e per la loro famiglia, con affetto).
Giancarla Paladini